Omelia della III domenica di Quaresima (3 marzo 2024 - Anno B)
Per due volte il vangelo che abbiamo
appena ascoltato interrompe la narrazione del racconto per parlare dei
discepoli che ricordano. Un primo ricordo è suscitato dall’immagine rara di un
Gesù arrabbiato, che con una frusta in mano scaccia animali e proprietari dal
tempio, che fa ritornare loro alla mente il versetto di un salmo: “Lo zelo
per la tua casa mi divorerà” (Sal 68,10). Mentre ben più tardi, almeno tre
anni dopo, dinnanzi alla risurrezione del Signore, ricorderanno che in realtà
Gesù l’aveva preannunciata fin da oggi, affermando che gli sarebbero bastati
tre giorni per ricostruire il tempio che è lui stesso: “Distruggete questo
tempio, e in tre giorni lo farò risorgere”.
Queste due riflessioni diventano determinanti per la fede
degli apostoli, tanto che l’evangelista conclude dicendo: “E credettero alla
Scrittura e alla parola detta da Gesù”. Fino a quel momento i discepoli
disponevano di quello che noi oggi chiamiamo l’antico Testamento; le parole e
la persona stessa di Gesù, meditate e accostate alle altre Scritture, diventano
pure Parola di Dio, compimento della rivelazione di Dio, della sua alleanza e
del suo disegno di salvezza per il mondo. E questo diventerà il modo con cui
d’ora in poi tutti i discepoli di Gesù alimenteranno e sosterranno la loro
fede: settimanalmente, quotidianamente, meditando la sua vita e le sue parole
raccolte nel Vangelo, facendo memoria della sua passione, morte e risurrezione
nell’eucaristia, continuano o sempre ricominciano a credere che Dio ha visitato
e redento il suo popolo e ciascuno di noi.
Ma questi due ricordi dei discepoli dicono anche due livelli
ai quali possiamo leggere il vangelo di oggi.
C’è un primo livello, che è anche il senso letterario del
racconto, e che ha dato il nome a questo episodio, la purificazione del tempio.
Accade nella religione e nella vita spirituale quello che
accade, nel bene e nel male, in ogni ambito della nostra vita: in qualsiasi
nuova esperienza, attività, evento che ci troviamo ad affrontare, siamo
chiamati a mettere in campo intelligenza, fantasia, impegno, entusiasmo per
realizzare quella tal cosa; nell’ingegnarci e nell’inventare c’è un gran
dispendio di energie, motivato dalla bellezza o dalla bontà di quella nuova
impresa. Fortunatamente, ripetendo quelle azioni, poco a poco si acquisisce una
competenza, una maestria che riduce lo sforzo mentale e fisico da applicare per
ottenere lo stesso risultato, per raggiungere gli stessi frutti, fino ad
arrivare ad andare quasi in automatico. Si è imparata una nuova tecnica, un
nuovo metodo, e ci si crea delle procedure per eseguirli: l’efficacia e il
risultato a quel punto sono quasi garantiti. Ma non si può dire altrettanto
della sostanza e del senso di quel che si è imparato a fare: il rischio infatti
è quello di aver perso di vista la motivazione iniziale, l’entusiasmo, lo zelo
che aveva innescato tutto quel lavoro, quel processo. L’automatismo rischia di
uccidere lo spirito.
Certo era comodo recarsi al tempio con in tasca i soldi
necessari per l’acquisto dell’animale da sacrificare, e affidare a mercanti,
leviti e sacerdoti, professionisti del mestiere, l’intera esecuzione del
sacrificio. Il dovere era così assolto, ma molto probabilmente era venuta meno
la consapevolezza che quel gesto voleva
dire e rinnovare: l’origine del dono da Dio, la benedizione e la gratitudine a
Dio per la propria vita, significata da quel cibo ricevuto e offerto, la gioia
dell’alleanza proposta da Dio e stipulata con il popolo, il pentimento e la
riparazione per essere venuti meno a quell’alleanza. Ecco allora un Gesù che
compie un segno forte per scardinare quel sistema e invitare a ritornare al
senso profondo dei gesti e parole che il commercio e la ripetitività rischiano
di far perdere.
Anche perché, e questo è il secondo livello del racconto, la
prassi alla fine forma il pensiero, il nostro agire concreto forgia la nostra
idea di Dio; il modo con cui ci rapportiamo con gli uomini e con il creato dice
il modo con cui ci rapportiamo anche con Dio. Se il sacrificio, la
liturgia slittano dalla logica del dono
a quella dello scambio, alla fine anche la nostra relazione con Dio si
trasforma in una compra-vendita: offriamo sacrifici per acquistare dei meriti,
recitiamo preghiere per ottenere in cambio dei favori ... Ma evidentemente in
tal modo non siamo più nella logica dell’alleanza, quell’unico Signore che ci
ha fatto uscire dalla condizione servile lo abbiamo trasformato in un idolo che
vorremmo funzionasse come un mercante, secondo il nostro tornaconto. Ma
Dio è amore, e non si può comprare l’amore. Concepire
Dio in termini di legge, di obbligo, di dovere, di debito, di paga, di castigo, di
premio invece che in termini di amore, di risposta,
di alleanza, di nozze, è stravolgere la religione e il nostro rapporto con lui.
Per concludere, potrebbero essere tre gli spunti che il
vangelo oggi ci dà per proseguire il nostro cammino di conversione che si
avvicina alla metà della quaresima:
•
il ricordare, il far memoria delle
parole, della vita, passione, morte e risurrezione di Gesù, che celebriamo
anche ora e che come per gli apostoli ci permette di continuare, ricominciare a
credere;
•
il ritornare sempre al senso
originario di quello che facciamo e celebriamo, perché la ripetitività non lo
svuoti di senso: anche nell’assolvere a un dovere si può continuare a vedere il
fondamento del dono;
•
perché, ed è il terzo spunto,
rivelandosi come dono, amore, gratuità, servizio, perdono, Il signore Gesù ci
chiama a incarnare questa sua immagine di Figlio e uscire da una logica di
schiavi o mercanti.
fr. Amedeo
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