Omelia Sacra Famiglia 27/12/2020

Tutte le relazioni nascono, si fondano su una promessa che una o entrambe le parti fanno, e sulla base della quale l’altro può dare fiducia, affidare qualcosa di sé o addirittura affidare tutto se stesso.

Si fondano su questo principio i rapporti commerciali, economici, lavorativi, in cui affidiamo ad altri le nostre cose, i nostri soldi, il nostro tempo, sulla base della promessa che l’altro ci ha fatto di gestirli e di renderci la dovuta ricompensa. Ma funzionano così anche i rapporti affettivi, di amicizia, familiari e comunitari in cui affidiamo i nostri desideri, progetti, sentimenti, la nostra stessa vita, sulla base della promessa che l’altro o gli altri hanno fatto, di esserci per noi.

Nella sua originalità, anche la santa famiglia che festeggiamo oggi, nasce e si fonda su questo gioco di promesse e di fiducia. La particolarità sta nel fatto che le promesse fatte e la fiducia accordata non sono innanzitutto scambiate tra Maria e Giuseppe, ma per entrambi c’è prima una relazione personale con Dio.

È Dio, attraverso l’angelo, che promette a Maria che il Signore è con lei, che non deve temere perché ha trovato grazia presso Dio, che colui che nascerà da lei sarà santo e chiamato Figlio di Dio (Lc 1,28 ss). Ed è di fronte a questa promessa che Maria pronuncia il suo fiat, la sua adesione fiduciosa a questo progetto di Dio per lei di diventare madre di Dio, e che si realizzerà con il sostegno di Giuseppe.

Analogamente Giuseppe, di fronte al dilemma in cui si trova, riceve questa promessa da Dio: “Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1, 20-21)”. E anche Giuseppe si fida, fonda la sua identità di padre e la sua relazione di sposo sulla Parola di Dio, sulla promessa di Dio.

Già queste costatazioni potrebbero essere l’occasione di una riflessione personale: su quale promessa si fondano le nostre relazioni? A quale promessa, a quale parola originaria possiamo far ritorno quando avvertiamo in noi affievolirsi la fiducia in una persona, in una realtà, in una missione che abbiamo assunto? Maria e Giuseppe ci mostrano che ancor prima che in una promessa e in una fiducia reciproca -e già, pensando alla loro santità, ci verrebbe da dire che ce ne sarebbe stata da vendere-, si affidano ciascuno alla promessa di Dio. Pur senza più mettere in dubbio la fedeltà della propria sposa, l’amore del proprio sposo, entrambi affidano la propria vita l’uno all’altra perché radicati a una promessa che sta ancora più a monte, alla promessa che la loro relazione è innanzitutto voluta e benedetta da Dio.

Le letture di oggi in realtà portano l’attenzione su due altri personaggi biblici: due anziani, anch’essi depositari di una promessa, a cui rispondono con un atto di fiducia. Perché se è vero che la promessa dell’altro è ciò che può metterci in azione, è pur sempre necessario un atto di fede nostro che ci determina ad aderire a quella promessa e a lanciarci.

“Lo Spirito Santo aveva preannunciato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore”. Una tranquilla certezza accompagna la vita di Simeone: sa che innanzi a lui c’è una salvezza che sta per rivelarsi e di cui sarà testimone, beneficiario. Attenderà una vita intera prima che questa salvezza si manifesti e possa così riconoscerla: ma la promessa che lo Spirito gli ha fatto, e che nella preghiera ha saputo cogliere e coltivare, illumina la sua vita, la strappa dal grigiore di giorni a prima vista destinati a condurlo alle più fitte tenebre della morte, e gli dona una quotidiana e gioiosa consapevolezza della salvezza. L’adesione fiduciosa, la fede riposta in quella promessa gli consentirà, al momento dell’ingresso di Gesù al Tempio, tra tanti altri bambini primogeniti presentati al Signore, tra tante altre idee di Messia e di salvezza che le religioni e le filosofie hanno prodotto, gli consentirà di riconoscerlo e proclamare: “ Ora … i miei occhi hanno visto la tua salvezza, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo”. 

Anche il mistero del Natale, del Dio fatto uomo, può diventare per noi quella luce che ad un certo momento inizia ad illuminare i nostri giorni ...

Più travagliata è l’esperienza di Abramo, di cui ci parlano le prime due letture: la promessa di una terra e di una discendenza si scontrerà per un’intera esistenza con la mancata realizzazione di tali promesse. Per la sepoltura della moglie Sara, seppur morta in avanzata età, Abramo dovrà acquistare un campo dagli abitanti di quella regione, segno che la terra promessa in quel momento ancora non c’è; e anche il figlio Isacco, attraverso il quale sembrava finalmente concretizzarsi la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo, gli sarà nuovamente richiesto in sacrificio, in un’estenuante prova di fiducia che renderà Abramo il padre nella fede di ebrei, cristiani e musulmani. Di lui san Paolo scrive: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli … egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo e il seno di Sara … Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento (Rom 4,18 ss).

Nel modo travagliato di Abramo, o nel modo tranquillo di Simeone, celebriamo anche noi in questo Natale la promessa di Dio che vuole la nostra salvezza e la nostra gioia: è su questa promessa che possiamo lanciarci, fidandoci di Lui, nell’avventura della vita; e diventare a nostra volta capaci di promesse e di fiducia tra di noi. 

 Fr Amedeo

 


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