Omelia per il Giovedì Santo - 17 aprile 2025


È bello contemplare la delicatezza del Signore che ci fa entrare in questi giorni santi consegnandoci parole e gesti che parlano il linguaggio della “cura”.

Riuniti attorno a questa mensa per condividere un pane, quello che il Signore ha consegnato in quel giovedì nel cenacolo ai suoi discepoli. Riuniti attorno alla mensa della Parola per ascoltare le ultime parole con le quali dice il suo amore per il Padre e per noi uomini. Riuniti tutti qui insieme per contemplare dei gesti che ci affida come esempio.

Tanti modi per declinare lo stesso messaggio che il Signore vuole consegnarci, come per dirci:

io mi prendo cura di te, mi prendo cura di voi, rendendovi partecipi della vita divina, offrendo la mia vita perché voi viviate! 

In questa liturgia ci sono raccontate le due “cene” importanti per la vita di cercatori di Dio.

La prima cena, narrata nella prima lettura! È la cena della Pasqua nella quale si fa memoria della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto. Una cena curata nei più piccoli dettagli, dall’agnello alle erbe amare, dall’abbigliamento ai modi nei quali questa cena va consumata: “in fretta”. Tutto dice che bisogna essere pronti! Il Signore passa ed è necessario che si sia capaci di cogliere questo passaggio, pronti a partire!

C’è il sangue dell’agnello che è il segno della protezione e della liberazione. Davanti a loro, misteriosamente, si apre una strada che li condurrà sul monte Sinai, lì dove YHWH, il Dio di cui non si può pronunciare il nome, il Totalmente Altro, consegnerà le tavole della legge.

Questa liberazione dalla terra d’Egitto sigilla una alleanza, la prima! Dio si prende cura del suo popolo che grida dalla terra della schiavitù! Quella schiavitù che non è solo quella determinata dal potere di un faraone di turno, ma dalla schiavitù nella quale anche oggi spesso ci ritroviamo per esserci avventurati su strade impervie, affascinati dall’illusione di false chimere che ci promettevano felicità a buon mercato e che invece ci fanno ritrovare soli, spersi, impauriti. Ma il Signore ci dice che il grido dell’uomo non è dimenticato. Egli viene in soccorso. Nella prima alleanza è dunque consegnato un cibo, un simbolo: l’agnello e le tavole della legge. L’agnello, animale mite, puro innocente che nell’essere immolato, porta su di sé il peccato del mondo. E le tavole della legge che sono quei criteri donati per una vita piena, come dei guardrails che aiutano a permanere sul retto cammino.

 La seconda cena, narrata dalla seconda lettura e nel vangelo, introduce nella nuova alleanza. Una cena che porta a compimento la prima alleanza, in una dimensione di continuità e al tempo stesso di discontinuità.

Anche in questa cena ci è consegnato un cibo e un simbolo: un pane e un vino, un catino d’acqua con un asciugatoio.

Gesù si trova a far Pasqua con i suoi discepoli. Egli non rinnega nulla di quanto lo aveva preceduto, ma lo porta a compimento. C’è una salvezza che, certo, viene dalla liberazione da ogni forma di schiavitù, c’è una garanzia che viene dal ricevere dei “binari” sui quali rimanere per non perdersi lungo il cammino. Ma questo non basta perché la nostra felicità non la si trova semplicemente in una condotta di vita pura, moralmente giusta e corretta, o resa candida da qualche semplice rito! La nostra felicità risiede in una relazione con Dio. Il nostro cuore lo desidera! Abbiamo fame e sete di questa relazione! E Gesù si consegna in un po' di pane e in un po' di vino – questo è il mio corpo – per dirci che Lui è il vero nutrimento, per dirci che è vicino, che la relazione con Lui è a portata di mano. Dio non è lontano, su un alto monte, accessibile solo attraverso la figura di mediatori come Mosè e dei pochi eletti convocati sul Sinai. Dio, in Gesù si fa prossimo, vicino. Abita l’ordinario, come in un pezzo di pane che è a disposizione di tutti.

Ma Gesù, in quella sera, aggiunge anche un’altra consegna: un catino e un asciugatoio. Il Signore non da solo orientamenti per una vita buona, ma sostiene il nostro cammino. Lava i piedi dei suoi. Possiamo dire che in quelle sue mani sono i nostri piedi.

Sembra dirci che Lui è presente per sollevare i nostri piedi stanchi, per dare sollievo a ciò che pesa nella nostra vita. Nelle sue mani è custodito il peso di chi fa fatica sotto il peso di una vita che schiaccia. Nelle Sue mani sono custoditi i passi di chi tenta un cammino. In quelle mani sono accolte e fasciate le ferite e le piaghe di chi si è avventurato in sentieri impervi… anche di chi ha tradito.

Quelle mani che lavano, asciugano, fasciano, leniscono, custodiscono, accarezzano… quelle mani che dicono cura, amore! Mani di chi non si rassegna ad attendere dall’alto della sua dimora che gli uomini vadano a Lui, ma va in cerca di piedi avventuratisi lontano. Lo contempleremo in questi giorni, in questo suo abitare luoghi tanti distanti dalla vita, come la morte in croce, gli inferi… eppure Gesù va lì, mendicando piedi da lavare, mendicando piedi da salvare: quelli di Giuda, dei ladroni, buoni e cattivi, di Pilato, di Erode, di Pietro, del centurione, della folla, degli scribi e dei farisei.

 E nel lavare i piedi dei suoi, rivela un nome di Dio nuovo. Ce lo consegna come verità di sé, ma anche come via per noi. Un nome consegnato, ma presto e sovente dimenticato, perché scomodo:

             ecco io sono in mezzo a voi come colui che serve.

 Gesù rivela il nome di Dio come “colui che serve”! È questo il “titolo” che Gesù si dà!

Tanti sono i nomi con cui ci rivolgiamo a Lui: Maestro, Salvatore, Signore, Cristo, Figlio. Ma nel cuore della cena Gesù rivela un nome nuovo, con parole e gesti: “Servo” è il nome di Dio rivelato questa sera. Un servizio che dice amore gratuito, disponibilità, dedizione, costanza, determinazione. E, sebbene desideriamo e riconosciamo il bisogno di essere oggetto della cura di Dio – abbiamo bisogno di essere salvati – con molto più disagio accoglieremmo il suo invito: anche voi facciate come io ho fatto a voi. Ci troveremmo maggiormente a nostro agio se ci avesse chiesto di imitarlo nel suo essere Signore, Maestro, sedendo su cattedre dalle quali dispensare il nostro sapere, i nostri giudizi. Ma la consegna che fa ai discepoli e a noi questa sera è quello di imitarlo nella dimensione della cura: come Egli ci ha amato, così siamo chiamati ad amare.

Chiediamo al Signore di entrare in questi giorni santi con il desiderio di lasciarci amare, salvare, curare per poter anche noi fare come Lui, imparando ad amare i nostri fratelli e le nostre sorelle.

                  Fr. Emanuele 

 

 

 


 

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