Omelia per la IV domenica di Quaresima (30 marzo 2025)
Siamo nel cuore della Quaresima e la Chiesa oggi ci dona quel meraviglioso testo che è la Parabola del Figliol Prodigo, parabola di grande ricchezza, di consolazione e luce. In essa conosciamo Dio e l’uomo, ma soprattutto siamo sfidati a guardare ben in faccia il nostro modo di pensare Dio e il nostro comportamento verso di lui. In più oggi la Chiesa invita a rallegrarsi perché la Pasqua è vicina e il ritorno del Figliol Prodigo già ci parla di Risurrezione, di Vita, di Festa, di Gioia. Come nel libro di Giosuè abbiamo letto del momento in cui il segno della Provvidenza del Dio che libera, il dono della Manna, si interrompe, e nel testo di San Paolo siamo svegliati dal grido: “lasciatevi riconciliare con Dio”, così nella parabola di Gesù siamo messi di fronte alla Misericordia di Dio, che perdona, accoglie, mostra la sua gioia, ma ci rimanda alla nostra responsabilità, al fatto che Lui si occupa di noi non per viziarci, ma per farci diventare adulti davanti a Lui e in questo ritrovare la nostra somiglianza con Lui. Nella parabola del Padre Misericordioso e dei figli ciechi, che non vedono quanto è stupendo il suo amore e si ripiegano entrambi su di sé, leggiamo la storia dell’umanità e la nostra propria storia. Possiamo riconoscerci in ognuno dei personaggi, sapendo che l’unico nostro modello è il Padre. Al primo sguardo verrebbe da dire che la troppa bontà rovina i figli, non indica la via della gioia a cui tutti aspirano e, senza polso, conduce tutti all’infelicità. Abbiamo paura della Misericordia come asse della vita, perché ci sembra che tutto ci sfugga di mano. Tutta la Legge, pur essendo trasparente dell’Amore divino, torna continuamente sulla punizione, sull’obbligo e sembra non far altro che minacciare; l’esperienza della rovina del peccato sembra richiederlo e in genere le dittature nascono in un momento di debolezza. Potremmo dire che anche Dio si è adattato a questa dinamica e usa la frusta per portare al bene i suoi figli. Nella Scrittura troviamo questo principio, ma la parabola ci dice altro. Nella pienezza dei tempi Il Padre è come se non ce la facesse più e ha mandato suo Figlio a mostrarci che Lui è Amore, solamente Amore: per questo ha incastonato nel cuore del Vangelo di Luca la nostra parabola e nel Vangelo di Giovanni ha detto che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Capiamo allora che se ha lasciato andare via il figlio più giovane, quasi abbandonandolo alla perdizione – il Vangelo non parla di una filastrocca di raccomandazioni al momento della partenza! – e se col figlio primogenito è stato apparentemente assente, è perché la rivelazione della centralità dell’amore misericordioso ha bisogno di un terreno che ne sia assetato. Dio non abbandona, ma si rivela pienamente nel deserto, nella terra arida, senz’acqua. “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua”, dice un salmo e la voce del Figlio Unigenito diletto, nel punto culminante della sua vita nella nostra carne, ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Era il grido del prodigo in mezzo ai porci, era il grido del primogenito nell’amarezza del suo servire senza amore ed è proprio questo che ha ricevuto con chiarezza la rivelazione dell’amore: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”, che è il riassunto del grande discorso dell’amore con cui il Signore si è congedato dai suoi nell’ultima cena. Nella preghiera al Padre Gesù ha detto: “Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie; e perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro” e ai suoi discepoli ha rivelato le abbondanti fonti dell’Amore: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore e vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Tutto questo ha voluto dire il Padre del prodigo al figlio maggiore, che non vedeva il suo amore, come non lo vediamo neppure noi e ci sentiamo abbandonati; l’ha detto quando suo figlio, giunto al colmo dell’amarezza era finalmente pronto a capire il segreto del Padre. All’altro figlio ha detto la stessa cosa semplicemente impedendogli di dire: “sono tuo servo e non più tuo figlio”. Non esiste peccato che possa toglierci la filiazione divina che Gesù ha condiviso con noi morendo sulla croce. Il Padre non ha fatto grandi discorsi, ma ha parlato con i segni: l’abito, i sandali, l’anello, il vitello grasso e la festa. Ed è uscito a chiamare il figlio irato e amareggiato perché tutto quello era anche per lui. Anche lui non era servo, ma figlio. San Paolo ha riassunto per noi questo magnifico mistero dicendoci: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”
p. Cesare
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