Omelia per la I domenica di Quaresima (Anno C - 9 marzo 2025)
Ci sono tempi della vita più o meno piacevoli, e di quelli
segnati dalle prove volentieri faremmo a meno: anzi, diventano tempi in cui
l’essere rimandati al proprio limite, al fallimento, all’incapacità di trovare
il senso di quello che stiamo vivendo, ci possono portare sull’orlo della
disperazione.
E d’altra parte, ogni volta che questi tempi sono
contemplati in una pagina di Vangelo, siamo invitati a credere che in quella
porzione di vita che ci è dato di attraversare c’è una buona notizia, c’è
qualcosa di buono che si prepara e si annuncia.
Interpreto così questi quaranta giorni di Gesù nel deserto,
tentato dal diavolo. L’evangelista Luca ha l’accortezza di sottolineare per ben
due volte che non è il caso e tanto meno l’errore che ha condotto Gesù in
questa situazione, ma vi si trova per opera, sotto l’azione dello Spirito
Santo, che lo abita e che lo guida.
Siamo spesso tentati di pensare che le tentazioni sono la
conseguenza del nostro allontanamento da Dio, dell’aver imboccato strade
contrarie a Lui. Senza negare questa eventualità, il vangelo di oggi e tanti
padri spirituali al suo seguito sostengono tuttavia che è ancor più probabile
che la tentazione si manifesti proprio nel momento in cui scegliamo il bene, in
cui ci diamo propositi buoni; le prove vengono per provare, per saggiare il
desiderio di bene che ci abita, vengono per intralciare, dissuaderci dalle sane
e sante intenzioni che portiamo in noi.
Dinnanzi a una prova, è quindi una domanda sbagliata
chiedersi: “Che cosa ho fatto di male perché mi accada questo?”; ma è piuttosto
utile domandarsi: “Che cosa sono chiamato a interrogare di me di fronte a
questa situazione? Come posso convertire, purificare, affinare il mio sguardo e
la mia fede, sollecitato da questa prova?”.
Con Gesù il diavolo sembra voler giocare a carte scoperte, e
con queste tre tentazioni va esplicitamente a toccare il punto vitale di ogni
persona, che però spesso, immersa nella prova, non riesce a riconoscere e
raggiungere. Le tentazioni di Gesù diventano quindi per noi un modello, sono
esemplari per imparare a leggere e affrontare le nostre tentazioni.
Il nocciolo, il cuore della prima e della terza tentazione è
evidente dalle parole che le introducono: “Se tu sei Figlio di Dio …”. Ciò che
viene chiamato in causa è il tema dell’identità. Non è scontato assumere in
modo equilibrato l’identità di figlio, tenendo insieme le dimensioni del
bisogno e del desiderio che la costituiscono, e senza scadere negli estremi
opposti della rassegnazione e dell’orgoglio.
Perché essere figli significa da un lato riconoscere che la
vita non è in nostro potere ma la riceviamo da altri. Fino al punto di dover
riconoscere che essa dipende addirittura dai bisogni più elementari, dalle cose
più ordinarie come può essere il pane. La dignità di essere uomini, di essere
la creatura per la quale Dio fin all’origine vide che era cosa molto buona, non
ci risparmia da questa totale dipendenza, dall’essere creature fatte di bisogni
e di limiti che se non correttamente assunti possono condurre alla
disperazione.
Ma essere figli può spingere anche nella direzione opposta a
quella di dipendenza e bisogno, per condurre alla pretesa di diritti e a
desideri di grandezza, tanto da ritenersi non più soggetti alle leggi, siano
esse quelle civili o della natura: ci si ritiene allora al di sopra del
diritto, o ci si crede capaci di sfidare la forza di gravità gettandosi dal
pinnacolo del tempio, accecati dalla presunzione di essere figli di qualcuno di
importante o di qualcosa di potente.
Gesù si libera e ci libera dalla disperazione dell’impotenza
rivelata dal bisogno, e dalla presunzione di onnipotenza dettata dal desiderio
di grandezza, mostrando che chi si sa figlio non risponde più alla logica del
potere, ma a quella del dono e del servizio: la vita va umilmente ricevuta e
data, le relazioni di appartenenza vanno intese come dono di sé disinteressato
e per amore.
La ritrovata identità di figli, poi, mette ordine in tutte
le relazioni che l’uomo si trova a tessere nella vita. La risposta che Gesù dà
nella seconda tentazione, quella del potere su tutti i regni ed i loro sudditi,
crea una gerarchia nelle relazioni, nelle quali solo Dio può ricevere
l’adorazione. San Benedetto nella sua regola la traduce con la bella
espressione “Nulla anteporre all’amore di Cristo”, che da una parte ne
dice il primato, senza tuttavia sminuire, disprezzare tutto ciò che costituisce
la vita, l’esistenza umana. Perché, se solo a Dio spetta l’adorazione, a tutti
gli uomini si deve il più grande rispetto: “onorare tutti gli uomini,
prevenirsi l’un l’altro nel rendersi reciprocamente onore” si legge in
altri due passaggi della regola, per dire il modo con cui siamo chiamati a
vivere non solo le relazioni filiali -onora il padre e la madre-, ma quelle con
ogni uomo. E Benedetto giunge ad indicare anche il modo con cui rapportarsi
alle cose, ai beni del monastero, chiedendo di considerarli allo stesso modo
dei vasi sacri dell’altare.
Adorare Dio, onorare gli uomini, aver cura del creato allo
stesso modo dei contenitori che raccolgono i segni della presenza di Dio: sono
i sentimenti che scaturiscono dalla ritrovata
consapevolezza di essere figli amati, e che allo stesso tempo la alimentano.
Che tali consapevolezza e sentimenti ci sostengano nell’attraversare il tempo
delle tentazioni e delle prove, resistendo alle logiche del potere e aprendoci
a quelle del Vangelo, a credere che c’è una buona notizia, c’è qualcosa di
buono che si prepara e si annuncia al termine di ogni cammino quaresimale.
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