Omelia per la II domenica di Quaresima (16 marzo 2025 - anno C)

 




Dopo aver dimorato con il Signore nei luoghi aspri di un deserto dove Gesù sperimenta la lotta contro le tentazioni, questa domenica siamo accompagnati sul monte Tabor a contemplare lo splendore della gloria del Cristo. Una scena che rinfranca e ci radica in una promessa.

Non siamo stati creati infatti per fermarci in un deserto, per vivere nella lotta, ma la nostra cittadinanza è nei cieli, la nostra dimora risiede nell’intima relazione con Dio. E sul monte Tabor dove il Signore ci prende con sé, Gesù ci mostra la bellezza che sgorga da questa relazione da cui non solo Lui, il Figlio unigenito del Padre, ne esce trasfigurato! Questo è il destino di ogni uomo e donna che riconosce nella relazione con Dio l’unico senso della propria vita. C’è una bellezza che è infinita come un cielo stellato, c’è uno splendore che è più luminoso del sole, c’è un compimento verso il quale tutto il nostro essere tende e riconosciamo che trova solo in Dio la sua pienezza.

Trovo interessante l’osservazione che l’evangelista Luca ci riporta al termine della narrazione della Trasfigurazione: Restò Gesù solo! Mi piace pensare che questa frase non sia solamente la descrizione della fine di un incontro di convenuti così particolari - Mosè ed Elia con Gesù e i pochi discepoli eletti - ma sia anche una indicazione di ciò che rimane come senso e fondamento di ogni esistenza: quando, con Gesù, anche la nostra vita troverà stabile dimora nel cuore del Padre e tutta la nostra esistenza sarà trasfigurata.

Luca ci invita in fondo a prendere consapevolezza che una vita trasfigurata e piena è l’esito di una vita che dimora in Dio solo!

Solo in Dio riposa la nostra vita, Lui che per noi è nostra luce e salvezza, come abbiamo cantato nel salmo. In Lui è la nostra stabilità, la nostra saldezza. Perché allora temere? Perché intrattenerci nella paura? Forse dovremmo avere il coraggio di intraprendere un cammino, quello che ci riconduce verso quel “luogo” dove ci è possibile vivere in autenticità la nostra relazione con Dio… ritrovare quella dimensione dove poter vivere il “solo a solo” con il Signore per fare continuamente esperienza di un amore che ci da vita, un amore che è da sempre e per sempre e che niente e nessuno può minacciare. Un amore che, quando sperimentato, non può essere trattenuto, perché riflette sul volto e chiede di essere condiviso.

Questo è il nostro vero e profondo destino e con il salmista dovremmo poter cantare questa certezza: sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi!

Ora affermare l’assoluto di Dio non significa sostenere la causa di una vita che si distacca sempre più da questa realtà, da questa vita. Sarebbe assolutamente contrario a ciò che Gesù stesso è venuto ad insegnarci. La piena intimità con Dio non è in contraddizione con la possibilità – direi anche il dovere - di vivere una vita pienamente umana. Anzi! Dio sposa sempre logiche di incarnazione. Ogni frammento di vita è prezioso. Una amicizia, un affetto, una cosa bella che ci è dato di contemplare o gustare… tutto porta in sé qualcosa dell’immagine di Dio. Ciò che è vero, buono, nobile, che porta la pace, che dona serenità in fondo ci parla di Dio e a Lui ci riconduce. Tutte queste cose sono un anticipo, segno e simbolo di una promessa che ci attende e di cui oggi ci è possibile di gustare come un assaggio… ma il compimento sta davanti a noi, oltre noi.  Occorre solamente sbilanciarci, perdere ogni forma di stabile equilibrio.

Proprio per questo mi colpisce il dettaglio che Luca riporta parlandoci dell’oggetto del dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia. Parlavano dell’ESODO di Gesù. Questo termine ha una valenza tutta particolare. Non si parla di fine di una vita, dell’esito della sua esistenza, ma Luca la narra con un termine che descrive un cammino, e per di più un cammino che nella storia biblica ha connotati di salvezza, ha il tono della Pasqua. In questa vita, Gesù ci mostra un esempio, si mette continuamente in cammino!

Forse se mi colpisce è perché è l’opposto di quanto desidererei o spererei. Lo esprimono bene i discepoli: è bello per noi essere qui! Facciamo tre capanne! La tentazione del cuore dell’uomo è di piantare tende, di costruire capanne, di fermarsi! Invece la Parola oggi ci provoca dicendoci che la nostra vita deve necessariamente assumere la fisionomia di un cammino, di un esodo. Bisogna lasciare una terra, una casa, una famiglia, come Abramo, non perché queste cose siano un male! Ma non sono il tutto!  Bisogna lasciare la terra d’Egitto con le sue sicurezze - e forse anche le sue schiavitù - non perché dobbiamo sperimentare l’asprezza di un deserto, ma perché il Signore non vuole che ci chiudiamo nella nostra autosufficienza. Siamo invitati a dimorare non in un luogo ma in una relazione. Non ci sono monti Tabor o Sinai dove fermarsi. La Terra Promessa che ci attende è un Volto: quello di Dio, quello del Padre che Gesù ci ha mostrato, e che il cuore di ogni uomo nostalgicamente ricerca. Alziamo allora lo sguardo e mettiamoci in cammino, rinfrancati dalla speranza che il salmo ci invita a cantare:

Spera nel Signore sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore! … sono certo di contemplare la bontà del Signore!


fr. Emanuele 

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