Omelia della domenica XVI del T.O. (23/07/2023 -Anno A-)
Conservo un consiglio di mia mamma che ritengo prezioso
anche sul piano spirituale, quando nelle calde sere di estate iniziavo a
girarmi e rigirarmi nel letto alla ricerca dell’ultimo angolino rimasto ancora
fresco, in attesa del sonno che tardava ad arrivare. Lei mi diceva che quel mio
agitarmi avrebbe prodotto l’effetto opposto, sia nel sentire ancora più caldo,
sia nell’allontanare il sonno. E mi suggeriva di restare fermo.
Anche il vangelo di oggi ci suggerisce, di fronte al male,
di fermarci e aspettare. Ad agire, ad agitarsi si rischierebbe di fare peggio,
strappando via anche il grano oltre alla zizzania, o logorando anche il
lenzuolo oltre al sonno, in quest’altra parabola ancora più calzante per questi
giorni.
Quella a cui ci invita il vangelo non è una tranquillità,
una passività frutto di indifferenza, disincarnata, che non si lascia toccare
dalle cose, dagli eventi, che fa scivolar via il male come acqua
sull’impermeabile; no, il male ci penetra, ci fa male, comprometterà la
lunghezza di quella notte di sonno, la qualità e la quantità di quel grano.
Ma solo fino ad un certo punto, se appunto avremo la
paziente forza e l’umile determinazione di fermarci e metterci a guardarlo in
faccia questo male. Scoprendo innanzitutto che c’è sì tanto male attorno a noi,
ma che il male sta già anche dentro di noi, senza bisogno di aspettare che
penetri in noi dall’esterno. Fermarsi a guardarlo, a guardarsi, accettando e
sopportando una iniziale sensazione di smarrimento, di rifiuto, perché è
semplicemente la realtà: le sere d’estate fa caldo, le coltivazioni sono presto
infestate da erbacce e parassiti.
Ci si può però fermare con una fiducia di fondo da cui
nascono una solidità, una fermezza quasi soprannaturali. Perché c’è una buona
notizia che sta all’origine di tutto: quel che è stato seminato all’inizio in
quel campo è del buon seme. C’è la certezza che quella sofferta notte insonne
lascerà il posto all’alba e anche se un po’ più rimbambito del solito potrò
iniziare un nuovo giorno.
“Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei
viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del
mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno
dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale” (Sap 1,13-15).
Il bene originale precede il peccato originale. E anche se a volte la
percezione è che la zizzania abbia preso il sopravvento sul grano, abbiamo la
promessa che ci sarà la mietitura e ci sarà il raccolto, arriverà l’alba e inizierà
un nuovo giorno.
Certo questo non dispensa dalla necessità di vigilare sul
male: perché spesso i germogli non sono facilmente distinguibili, e la menzogna
rischia di essere scambiata per la verità, la zizzania confusa con il buon
grano. E ci può arrivare, magari anche involontariamente, di spargere del
cattivo seme e diventare così collaboratori del nemico, del divisore.
C’è però una seconda buona notizia: alla fine la zizzania
sarà bruciata. Di una montagna di erbacce non resterà che un pugno di cenere.
Il male che è in noi e al di fuori di noi sarà estinto. Non cancellato, ma
trasfigurato, come l’ormai indolore segno dei chiodi nelle mani del Signore
risorto.
Non dobbiamo pensare che questo avverrà soltanto alla fine
della nostra vita: siamo circondati da uomini e donne che hanno avuto la grazia
e la volontà di bruciare il male di cui sono state colpite lasciando delle grandi testimonianze. In questi giorni
a tavola stiamo scoprendo il cammino di perdono compiuto dalla moglie del
commissario Calabresi, assassinato negli anni settanta. Un’esistenza che poteva ripiegarsi nel dolore e nell’odio ha
saputo estinguere questi mali e riprendere ad amare e testimoniarlo con la
vita.
C’è una terza buona notizia in queste due altre parabole del
seme di senape e del lievito mescolato nella pasta che apparentemente sembrano
scollegate con la parabola del grano e della zizzania. Esse dicono che, per
quanto piccolo sia il bene presente in noi e attorno a noi, fosse anche delle
dimensioni di un seme di senape, fosse anche una sola bustina di lievito, quel
bene ha in potenza la capacità di far lievitare tutta la pasta, ha la capacità
di diventare un albero tanto grande da permettere agli uccelli del cielo di
nidificarvi e generare nuova vita.
Sembra sempre troppa poca cosa quel esigente lavoro che
possiamo fare in noi stessi per conservare e coltivare quel piccolo seme di
bene che vi troviamo. Eppure un monaco di alcuni secoli fa, san Serafino di
Sarov, aveva invece intuito la fecondità di questo lavoro nascosto. Diceva:
“Trova la pace in te stesso, e a migliaia attorno a te avranno pace”.
Sii grato del bene, piccolo o grande che sia, che è in te;
coltiva la purezza di sguardo per vedere il bene che sta attorno a te. E poco a
poco il tuo cuore si dilaterà, come la massa della pasta mescolata al lievito
della gratitudine, come un albero che crescendo giunge ad offrire riparo e
fiducia per generare nuova vita.
Commenti
Posta un commento