Omelia Solennità Maria madre di Dio ( Anno C 1/1/2022)
C’è
una parola che ricorre molto in questi giorni nei nostri saluti, legata alle
feste e all’anno nuovo che abbiamo iniziato. Il rischio, come in ogni cosa che
diventa routine, è che ne perdiamo il senso più vero. Cosa intendiamo dire
quando diciamo a qualcuno: “Auguri”? Se guardiamo il verbo da cui deriva,
capiamo che c’è qualcosa che rimane sottinteso. Non ha senso dire : “Ti
auguro”, senza aggiungere un oggetto, un evento, un sentimento, un successo …
Ci
sono poi espressioni, per quanto magari dette in modo ironico e scherzoso, che
mostrano come l’augurio non è immediatamente associato a qualcosa di bene, a un
desiderio di benevolenza nei confronti di chi lo indirizziamo. Per indicare il
male di cui erano affetti alcuni suoi pazienti, una psicologa raccontava loro
la storiella di una fata apparsa a un signore garantendogli che avrebbe
realizzato qualsiasi suo desiderio, per quanto grande fosse: amore, felicità,
denaro, possedimenti, viaggi … Doveva soltanto sapere che il suo vicino avrebbe
ricevuto il doppio di quanto lui avesse chiesto. Per tutta risposta quel signore chiese che gli fosse strappato un
occhio.
Augurare e desiderare il bene dell’altro non è
così evidente e scontato. Innanzitutto perché la percezione che i beni sono
sempre limitati ci fa pensare che quelli che andranno agli altri non saranno
più disponibili per noi. È il sentimento della gelosia, del timore di perdere
qualcosa che riteniamo ci appartenga o ci spetti. Ma è pure difficile entrare
nella logica della gioia per il bene dell’altro, indipendentemente dal mio
tornaconto: gioire per l’altro richiede di superare l’invidia e cercare una
fraternità che non è semplicemente quella naturale, perché anche tra fratelli
scatta l’istinto di pretendere di almeno non avere meno dell’altro. E ancor più
in profondità, è difficile desiderare il bene per l’altro perché non è affatto
scontato scorgerlo presente attorno a noi: non è così innata la capacità, nelle
pieghe della vita e della storia, di vedere il bene, perché la costatazione del
male rimane a tutti più evidente: lo dimostra il fatto che la cronaca nera fa
sempre più ascolto, attrae di più delle buone notizie, l’albero che cade fa più
rumore della foresta che cresce.
Possiamo
guardare alle letture di oggi come a un invito a riscoprire il senso più vero
dell’augurio. Nella prima lettura Mosè insegna a suo fratello Aronne e ai suoi
figli a benedire gli israeliti, con queste parole: “Direte loro: Ti benedica
il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e
ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Di
fronte alla tentazione di vedere solo, o principalmente il male, la benedizione
è una parola potente che riconosce il bene presente e apre la strada perché Dio
lo rinnovi. Benedire l’altro è dire il dono che riconosciamo in lui e/o
augurargli che questo dono nasca, si conservi, si accresca in lui. L’augurio
diventa benedizione quando lo associamo a Dio, attribuendo a lui l’origine del
dono da richiedere o del dono accordato: il Signore ti custodisca, ti sorrida,
ti conceda pace.
L’esclamazione
di Elisabetta quando riceve la visita di Maria, alla quale dice “Benedetta
tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno”, è la manifestazione
dello stupore, della meraviglia della cugina, che sa cogliere e gioire di ciò
che Dio ha compiuto in Maria. Maria è benedetta perché attraverso di lei, nella
sua divina maternità, si è rivelata la bontà e la potenza di Dio.
Anche
i pastori e i presenti alla grotta, ci dice il vangelo oggi, sono presi dallo
stesso stupore di Elisabetta e se ne tornano glorificando e lodando Dio.
“Maria,
da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, cercandone
il senso. Maria non trattiene la benedizione per sé, non ne fa motivo di vanto
e di autocompiacimento, ma, come nel corso della visita a Elisabetta, con la preghiera del Magnificat rinvia
immediatamente la benedizione a Dio, ne fa un motivo di lode: l’anima mia
magnifica il Signore.
La
benedizione, quella parola potente, quell’augurio ricevuto nove mesi prima
dall’angelo, che la invitava a rallegrarsi perché il Signore l’aveva riempita
di grazia ed era con lei, si realizza con la nascita di Gesù, e quella
benedizione diventa gratitudine, rendimento di grazie.
Guardando
ai vangeli dell’infanzia di Gesù che abbiamo ascoltato in questi giorni, c’è
ancora un aspetto della benedizione, quello più esigente, ma che porta al cuore
stesso della benedizione, cioè il saper cogliere il bene là dove sembra sia
solo o tutto male. Anche Maria, nonostante sia la benedetta tra le donne, ha
conosciuto la sofferenza della mancanza e della perdita. Presentando Gesù al
tempio, Simeone le preannuncia che anche a lei una spada trafiggerà l’anima;
dodici anni più tardi, dopo tre giorni di un’angosciata ricerca di Gesù a
Gerusalemme, si sentirà rispondere dal figlio che non c’era ragione di
preoccuparsi e di cercarlo, dovendosi Lui occupare delle cose del Padre suo.
Trovo
molto consone, a Maria ma penso anche all’esperienza di ciascuno di noi, le
seguenti parole che prendo in prestito: “Mi piace ringraziare, benedire
Dio per tutto quello che mi dà, ed è sempre così tanto che non ho parole per
descriverlo. Eppure sento che devo ringraziarlo, benedirlo, allo stesso
modo anche per quello che non mi dà, per le cose che sarebbero belle e che non
ho avuto, persino per quelle che ho chiesto e desiderato molto, ma che non sono
capitate. Il fatto di non averle ricevute, mi ha costretto a trovare forze che
non sapevo di avere e, in un certo modo, mi ha permesso di essere quella che
sono”.
È
l’augurio che possiamo scambiarci in questo inizio d’anno, la benedizione che
possiamo rivolgere a Dio e invocare per i nostri cari e i nostri vicini:
imparare a essere grati per quello che siamo, a ringraziare per ciò che abbiamo
e per ciò che ci manca, opportunità per approfondire una fraternità più vera e
una più grande apertura a Dio.
Fr Amedeo
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