Omelia della domenica IV di Pasqua (25/04/2021 –Anno B -)
Immagino Gesù che
racconta la parabola del buon pastore una sera, in quel paesaggio
semi-desertico della Palestina, radunato con i dodici attorno a un fuoco,
durante quei lunghi spostamenti che probabilmente li obbligavano anche a
trascorrere delle notti all’aperto. In lontananza altri fuochi, che indicano la
presenza di pastori che sorvegliano le loro greggi, come d’altra parte già si
racconta al momento della sua nascita a Betlemme. E Gesù, immerso in questo
scenario, inizia a riflettere a voce alta.
Il buon pastore dà
la propria vita per le pecore. A ben pensarci la cosa sembra paradossale,
dal momento che la ragione per cui un pastore alleva degli animali è per avere
di che vivere, per guadagnarsi da vivere. E tuttavia, se è vero che le pecore
gli danno da vivere, affinché ciò avvenga il pastore deve dedicare la propria
vita a loro.
È un’immagine per
riflettere sulle nostre relazioni: c’è una reciprocità che si instaura, ciò che
inizialmente magari nasce per pura utilità, può maturare verso uno scambio
reciproco, fino addirittura ad invertire le parti e constatare che colui che
cercava un profitto da quella relazione si ritrova a spendersi per essa, come
un pastore che si prende cura delle pecore, un padrone che cerca il bene dei
suoi servi. Certo, non è scontato: c’è il buon pastore e c’è una buona
relazione di dono reciproco, così come c’è il mercenario e una relazione che
rimane puramente sul piano utilitaristico, se non anche che sfrutta,
approfitta, saccheggia l’altro. È bello comunque sapere che abbiamo un Dio che
si identifica con il buon pastore, che non cerca nell’uomo un proprio
interesse, sia esso il sacrificio, la sottomissione, la devozione e riverenza
dei suoi servi: viceversa si abbassa per prendersene cura, si mette al di sotto
per servirli.
Il buon pastore dà,
espone la propria vita per le pecore. La prima cosa che ci viene alla mente
quando diciamo “dare la propria vita” è il sacrificio estremo che conduce alla
morte. Certo il pastore nel custodire di notte il suo gregge si espone anche a
questa eventualità, ma non trascorrerà tutte le notti in una lotta all’ultimo
sangue con i lupi. Può anche essere che non li incrocerà mai nell’arco della
sua vita trascorsa accanto alle pecore. Dare la propria vita allora è forse una
cosa più usuale di quanto immaginiamo: diamo la nostra vita nell’assunzione
responsabile del nostro dovere, nella fedeltà all’incarico, magari poco
gratificante, che ci è stato dato; offriamo la nostra vita nel convivere,
magari senza darlo troppo a vedere, con la malattia, il limite, l’ansia
nell’affrontare qualcosa che ci costa; esponiamo la nostra vita nel sopportare
pazientemente le incomprensioni, le tensioni, le fatiche del vivere insieme.
Senza essere eroi, diamo la nostra vita ogni volta che rispondiamo
generosamente a quello che la vita ci chiede.
Il buon pastore
conosce le sue pecore e dà la vita per loro. Nella Bibbia conoscere è
spesso usato nel senso di amare. Da una relazione utilitaristica, nata per
necessità, nata per opportunità, o per comunanza di fini, si può arrivare ad
amare. Tante volte questo non riusciamo a dircelo, né a noi stessi e tanto meno
all’altro, ma non riusciremmo neppure a negare la nostra vita all’altro, nel
momento in cui lo vedessimo nel bisogno e disponibile a lasciarsi amare.
Giustamente siamo sempre invitati a guardare il male che c’è in noi, a
considerare il nostro peccato, ma è importante anche considerare il bene,
l’amore che abita in noi e nell’altro, per non ingannarci e rischiare di
crederci senza cuore mentre i fatti dicono tutt'altro.
Il buon pastore,
infine, dà la propria vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno gliela toglie,
ma la dà da se stesso. Qui termina l’analogia, il modello del buon pastore
con cui Gesù racconta se stesso e si offre come esempio da imitare. Noi la vita
non possiamo riprendercela, se non rinunciando, smettendo di darla. A noi la
vita può essere tolta in ogni istante, dalla violenza e dalla brama di potere
di altri uomini, ma anche da un incidente o da un semplice virus, senza la
nostra deliberata volontà di darla fino a quel punto.
Ma anche Gesù, nel
seguito della sua vita, mostra qualcos’altro da questa sicurezza di poter
gestire da sé la sua vita. Le sue ultime parole sulla croce sono in realtà un
atto di consegna, di affidamento della propria vita al Padre. Nella prima
lettura Pietro affermava che Gesù non si è risuscitato da se stesso, ma che Dio
lo ha risuscitato dai morti. È in questa consegna fiduciosa, in questo deporre
le nostre armi di attacco e di difesa, in questo deporre la nostra vita nelle
mani del Padre che possiamo ritrovare una somiglianza con il Figlio. E di
questo ne siamo capaci, non da noi stessi, ma per il grande amore che il
Padre ci ha dato, al punto tale da essere chiamati figli di Dio, ed
esserlo realmente. Fin da ora siamo figli di Dio, ci dice san Giovanni
nella seconda lettura, e sappiamo, crediamo che un giorno saremo
simili a lui perché lo vedremo così come egli è.
L’invito a vivere sul
modello del buon pastore che dona la propria vita per gli altri non è un
obbligo, un dovere morale; ma è perché siamo stati creati ad immagine e
somiglianza di Dio che possiamo ritrovare pienamente noi stessi, trovare il
senso profondo della nostra vita, attraverso un dono sincero di noi (cfr
Gaudium et spes 24).
Commenti
Posta un commento