Omelia per la XVII domenica del Tempo Ordinario (28 luglio 2024 - anno B)

 

Sembra che in queste domeniche le pagine di vangelo vogliano porre accento su folle affamate della Parola, desiderose di salvezza. Folle che si accalcano attorno a Gesù, che lo pedinano anche precedendolo nei luoghi dove voleva ritirarsi con i discepoli. Folle animate da una speranza di ricevere qualcosa da questo maestro: una guarigione, una attenzione, uno sguardo, un pane!

Il cuore dell’uomo, rappresentato da queste folle del vangelo, non si arrende di fronte alle difficoltà o alle fatiche della vita ma è sempre animato da una speranza della quale non sempre sa comprenderne l’origine o neppure il motivo. Ma essa esiste nel profondo di ciascuno di noi, indefettibilmente, come una promessa: davanti a noi c’è una vita.

Tutti infatti avanziamo nella vita solo se animati da speranza. E la speranza è ciò che da senso ai passi che quotidianamente compiamo: possiamo vivere nel presente anche una vita piena, ma senza la speranza che ci dona l’orizzonte e il senso di questo cammino, per quanto vago possa essere questo orizzonte, non avremo il coraggio di avanzare nella vita, bloccati dalla paura e dalla tristezza di perdere quello che la vita presente ci offre.  

Ma cosa possiamo sperare? Quale è l’orizzonte della nostra speranza?

San Paolo, dialogando con gli Efesini, prova a dare un nome a questa speranza, prova ad identificarla con la buona notizia: quella della chiamata (qui tradotto con vocazione)

una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione

È interessante… il termine chiamata, nelle poche righe della seconda lettura, ritorna molte volte. C’è qui allora qualcosa di molto importante, da non sottovalutare.

Quando parliamo di “vocazione”, di “chiamata” troppo spesso cadiamo nel tranello di confondere questa “chiamata” come una “realizzazione di vita personale” che precede e prescinde da qualsiasi relazione. Come se il compimento di una vocazione fosse dapprima un compimento di un desiderio che portiamo nel cuore, solo dopo il quale la relazione con Dio e con i fratelli è possibile.

Ma non è assolutamente così … anzi! è tutto l’opposto!

La vocazione/chiamata indica innanzitutto una relazione. C’è chiamata dove ci sono due interlocutori: uno che desidera raggiungere l’altro e, per certi versi, lo chiama all’esistenza. E indica l’interesse e il desiderio di entrare in questa relazione.

Ora Dio, in Gesù, fa il primo passo, si espone nel cercare questa relazione. Non rimane chiuso nel suo orizzonte divino, ma “esce fuori di sé”, esce dal cuore del Padre per venirci incontro.

Anche nella pagina di vangelo di oggi si vede questo movimento… Gesù avrebbe potuto starsene tranquillo sul monte, con i suoi discepoli. Ed invece alza lo sguardo, si accorge della folla e se ne prende cura.

Gesù entra in relazione con questa umanità. Desidera farlo, la cerca e questo suo movimento coinvolge: i discepoli infatti sono implicati nei gesti di cura.

È proprio in questo interessamento di Dio nei nostri confronti che risiede la nostra speranza e la nostra gioia. Egli si prende cura di noi. E il desiderio di Dio trova compimento quando viviamo uniti a Lui e con i fratelli e le sorelle, partecipi della Sua Vita, inseriti nella Sua Pasqua: un solo corpo e un solo spirito!

Ma questo desiderio di Dio, da solo non basta. Occorre lasciarsi coinvolgere, dare fiducia a Dio che semina nel nostro cuore ogni desiderio e lo porta a compimento… lasciar fare a Lui.  

Ma in cosa consiste il nostro coinvolgimento? Quale è la parte di collaborazione che ci spetta?

Collaborare all’opera di compimento della nostra vocazione avviene quando entriamo pienamente in questa relazione con fiducia!

La fiducia di chi sa che il Signore è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. Di chi crede che Egli ci conduce oltre i nostri piccoli orizzonti e di chi ha salda speranza che il Signore porta a compimento anche quando tutto sembra impossibile e non si vedono via di uscita.

Lo vediamo chiaramente nelle letture di oggi. C’è una impossibilità che sembrerebbe oggettiva, una oggettività che si contrappone alla vita... mancano i pani per sfamare la moltitudine e non si hanno risorse per sovvenire al bisogno.

Eppure il Signore chiede di non temere di osare dei passi incomprensibili agli occhi dei discepoli, passi di un cammino verso un oltre per cui non si hanno garanzie. Prendere e condividere tutto quel poco che si ha… del resto se ne preoccupa il Signore.

In fondo quello che il Signore chiede è di entrare con Lui in quelle pasque della nostra vita che provocano o abbattono le nostre convinzioni, le nostre conoscenze, le nostre certezze, e ci esorta a fidarci entrando nella volontà di Dio, assecondando quanto il Signore ci invita a compiere.

Stare con Lui, guardare a Lui, fare quanto Egli ci chiede, e fidarci sulla possibilità di un compimento che non viene da noi e dalle nostre forze… questo solo il Signore ci chiede, questo solo basta.

E presto ci renderemo conto che un atto di fiducia richiede molto più coraggio di tante imprese eclatanti che ci possono vedere protagonisti.

Sulla parola di Gesù allora cinque pani e i due pesci sono sufficienti per sfamare una moltitudine… non perché noi ne siamo capaci, , ma perché lasciando fare al Signore scopriremo fecondità  inimmaginate.

Chiediamo al Signore di farci crescere nella fiducia per contemplare il compimento dell’opera di salvezza che Egli ha già cominciato in noi. Questa contemplazione sarà la nostra gioia e il nostro riposo.


fr. Emanuele

 




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