Omelia per la XIV domenica del Tempo Ordinario (7 luglio 2024)

 






La preghiera iniziale ci ha fatto dire al Padre: “Nell'umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l'umanità dalla sua caduta” e nel Vangelo troviamo l’abbassamento dell’Altissimo, per innalzare la creatura fatta di terra e caduta ben in basso a causa dell’orgoglio, fonte di ogni peccato. Questo è il misterioso movimento dell’Amore, di cui tutta la Parola di Dio ci parla. In Ezechiele abbiamo visto quanto l’umiltà, che Dio mostra, è tessuta non solo di un amore paterno più forte della durezza di cuore del popolo amato, ma anche di una fiducia che sembra follia, ma che il Signore non cessa di avere nel rapporto con l’uomo. Sì è una “genia di ribelli”, eppure la tenacia e la tenerezza con cui Dio lo conduce riuscirà a salvarlo e gli occhi dovranno aprirsi per riconoscere la verità dell’amore divino per il suo popolo. “Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”, dovranno riconoscere che non sono abbandonati all’erranza di chi non ha una guida. Il profeta è sempre un dono del Signore che alza la voce perché il popolo prenda coscienza della sua chiamata e di quanto è amato da Dio. Ma il profeta deve anche saper rischiare lo scacco, apparente, perché la Parola è sempre un seme fecondo. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore non porta frutto” dice Gesù. È ciò che, nel Vangelo di oggi, vediamo accadere a Nazareth, il paesello della infanzia e gioventù di Gesù, dove tutti l’avevano visto crescere, giocare sulla piazza, lavorare con suo padre e poi forse, dopo la probabile morte di questo, mandare avanti la piccola imprese ereditata, anche se poi si può pensare che per un tempo più o meno lungo di assenza, forse nel deserto, forse con Giovanni il Battista, forse nei dintorni del Tempio a Gerusalemme, tempo di preparazione alla missione, era ritornato nella sua Patria e parlava con autorità nelle sinagoghe e sulle piazze. “Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” Così si diceva del Dio grande e misericordioso, senza saperlo riconoscere. Dio si è fatto uno qualsiasi e non lo si riconosce. Viviamo in un mondo così anche noi e i nostri occhi non si aprono, non colgono il mistero. Eppure San Marco dice: “Gesù lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando”. Quando gli occhi non vogliono vedere tutto sembra roba da niente. Pochi malati guariti; per noi non sarebbe un niente. Negli atti degli Apostoli ogni volta che Pietro o Paolo operavano una guarigione la città entrava in fibrillazione e qui a Nazareth nessuno notava quello che succedeva in mezzo a loro. Il segreto della volpe del Piccolo Principe era : “Non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi". I concittadini di Gesù non guardavano col cuore, ma erano presi da quella malattia così diffusa e che distrugge la convivenza umana: il sospetto. Quando il sospetto arriva prima dell’accoglienza è inutile parlare, insegnare, guarire e amare (anche se forse l’amore è l’unico seme che porta frutto anche nelle terre più aride). Gesù ha amato, non ha preferito le città in cui era accolto con entusiasmo alla sua città fredda e sospettosa. Ma loro non hanno visto che a loro veniva proposta la salvezza. Dio si è manifestato nell’umiltà, in una vita nascosta, ma l’uomo vuole cose visibili, che fanno chiasso, che si impongono. Per poi dopo poco rovesciarle perché passate di moda, soppiantate da un ulteriore novità. È anche l’esperienza di San Paolo. Una spina nel fianco. Non abbiamo bisogno di fantasticare cose potesse essere. Certo qualcosa che lo umiliava, lo diminuiva. Anche a lui il Signore ha dovuto insegnare la vera via dell’efficacia evangelica. “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Certo forza e debolezza sono parole contrastanti, ma il Signore parla di “manifestazione”, epifania. E la prima grande epifania del Signore non è stata forse nell’estrema debolezza di un neonato? E la grande epifania dell’amore divino non è apparsa nella grande umiliazione e sofferenza della Croce? Basta la Grazia del Signore, che rende i deboli capaci di salvare, gli umili di parlare alle folle e far sì che tutti si battano il petto. Sempre, il Signore con pazienza ha condotto l’uomo a liberarsi dall’illusione della necessità delle grandi cose, grandi imprese, grandi numeri. È un filo rosso che parte dal Paradiso terrestre in cui colui che voleva essere come Dio ha dovuto cercare la salvezza nel sudore della fronte, e giunge ancora alla Sposa di Cristo di oggi che si lamenta della sua attuale situazione, come Gerusalemme nel libro delle Lamentazioni. Eppure Gesù ha detto: Distruggete questo Tempio e io in tre giorni lo farò risorgere. Solo la sua potenza dobbiamo cercare, non la nostra. E allora con San Paolo, da miti e umili discepoli di Cristo, anche noi, Chiesa del XXI secolo dobbiamo imparare a dire: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”

                                    p. Cesare

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