Omelia per la XVII domenica del T. O. - (27 luglio 2025 - anno C)

 



   Il Vangelo di oggi ci parla della preghiera. Parte dal desiderio dei discepoli, evidentemente affascinati dalla preghiera di Gesù, di essere iniziati alla stessa, ricevendo i suoi insegnamenti analogamente ai discepoli di Giovanni il Battista. Gesù non fornisce precetti teorici, li introduce subito nel suo rapporto con il Padre, un rapporto di adorazione, certo, ma anche di infiniti fiducia, abbandono e amore filiali. E’ questo rapporto di intensissima relazione amorosa che affascina i discepoli che lo guardano, e Gesù li introduce in questa comunione vitale. Già la prima parola “Padre” messa sulla bocca di semplici uomini, suscita tenerezza più che timore reverenziale. Si chiede che il suo nome sia santificato, cioè che tutti lo riconoscano e lo adorino come Dio, e che l’amore per Lui si estenda a tutti i cuori, perché il Suo Regno giunga a tutti. Gli si chiede di provvedere ai bisogni materiali, al pane quotidiano, distribuito ogni giorno come la manna nel deserto, e quindi ci si affida a una provvidenza sicura, che non verrà mai a mancare , e poi si passa a chiedere il perdono per le proprie colpe, con il fermo proposito di usare la stessa misericordia da lui ricevuta nei nostri rapporti con gli altri. E si termina con un umile riconoscimento della propria fragilità in quanto povere creature, consapevoli che senza il suo aiuto cadiamo nella tentazione e nel peccato. La versione lucana del Padre Nostro è molto più essenziale di quella di Matteo, che siamo abituati a recitare, ma i sentimenti e gli atteggiamenti sottostanti sono gli stessi.

     Il vangelo di oggi ci invita inoltre ad esercitare una preghiera insistente, fiduciosa, amorosa  e continua, anche se un po’ invadente e indiscreta, sul modello di quella di Abramo nella prima lettura; egli, da buon orientale, “contratta” arditamente con Dio la salvezza di Sodoma, riducendo via via il numero dei possibili giusti presenti nella città peccatrice per poterla salvare dal castigo.

    Per capire bene, anche lavorando di immaginazione, la piccola parabola dell’amico importuno bisogna tener presente la struttura della case palestinesi del tempo di Gesù: un muro di cinta che protegge un cortile interno, muro che ha una porta esterna che si chiude con una trave o con un catenaccio rudimentale. Oltre il cortile la porta della casa, anch'essa sbarrata lungo la notte, per proteggere uomini e animali radunati all’interno negli appositi ambienti, e, nel punto più interno, la camera da letto dov’è situato, al centro, il letto nuziale del padrone di casa, con i giacigli dei figli tutt’attorno. L’amico importuno è evidentemente alla porta esterna, e il padrone di casa è già a letto a fianco della  moglie e attorniato dai figli addormentati. Per esaudire la richiesta dell’amico deve svegliare tutti, andare nella dispensa a prendere i pani e aprire entrambe le porte: interna ed esterna, e si capisce la sua riluttanza a fare tutto questo. Ma l’amico insiste, non si da per vinto, perché è a sua volta pressato dall’obbligo morale che deriva dalla sacralità dell’ospitalità e, molto di più, dall’amicizia per colui che è arrivato all'improvviso: valori ben superiori dei disagi che egli richiede al padrone di casa.

   Gesù ci invita alla stessa “perseveranza importuna” nel nostro rapporto con Dio attraverso la preghiera, rincarando la dose con i tre verbi posti in successione: “chiedete, cercate, bussate” e con i tre verbi di risposta, dati con un tono che non ammette dubbi o tentennamenti “vi sarà dato, troverete, vi sarà aperto”. In queste successioni si nasconde una grande fiducia in Dio, che, come padre buono, non viene meno alle necessità dei suoi figli, e desidera con loro un rapporto costante di fiducia e di confidenza, ed è felice di ascoltarci senza stancarsi mai. Il che non vuol dire che Egli si pieghi alla nostra volontà, soprattutto se gli chiediamo cose che alla lunga non sono bene per noi. Ci ama talmente che desidera da noi una preghiera ardente, frequente, fiduciosa e piena di confidenza e abbandono. Il che ci dispone ad aderire alla sua volontà obbedendogli con la stessa generosità del Suo Figlio diletto. Gesù dirà “mio cibo è fare la volontà del Padre”: ciò che mi tiene in vita, la fonte della mia identità personale, è compiacere il Padre amatissimo con tutto me stesso “obbediente fino alla morte e alla morte di croce.”

   Ma come giungere a questi livelli? Condividendo lo stesso amore filiale di Gesù, diventando “figli nel Figlio”. Ecco perché Gesù ricorre alla metafora della paternità umana, affermando che anche noi, che siamo cattivi, davanti alla richiesta di un nostro figlio ci facciamo in quattro per rispondere e provvedere, e sicuramente non gli diamo cose cattive e dannose, perché desideriamo il suo benessere e la sua realizzazione. Ed ecco che Luca, magistralmente, ci insegna a chiedere il dono più prezioso: lo Spirito Santo, Colui che, solo, è capace di conformarci a Cristo, facendoci assumere il suo stesso stile nei pensieri, nei sentimenti, negli atteggiamenti nei riguardi del Padre e dei nostri fratelli. “Lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo cosa dobbiamo domandare, ma lo Spirito stesso prega in noi con gemiti inesprimibili e grida “Abbà, Padre!”. E con questa ultima sentenza: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glie lo chiedono”, Gesù risponde al desiderio iniziale di preghiera dei suoi discepoli. Non ci vogliono insegnamenti teorici o tecniche elaborate di preghiera, ciò che è importante è lasciarsi istruire e guidare dallo Spirito Santo, aprendo il nostro cuore alla preghiera che Egli insistentemente rivolge al Padre in Cristo nei nostri cuori fin dal momento del Battesimo. Egli ci conduce alla vita stessa intima della Santissima Trinità, ci fa partecipare all’intimo scambio dia amore e di vita che circola nel rapporto tra le tre divine persone, ci “divinizza” scolpendo in ciascuno di noi in modo originale l’immagine e gli atteggiamenti del Figlio. Allora la nostra preghiera diviene incessante, continua amorosa e insistente… la preghiera del cuore della tradizione orientale, ritmata sul nostro respiro (Che è la Ruah, lo Spirito Santo, soffio di vita) e sui battiti del nostro cuore, “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!” e che gli rivolgiamo non solo per noi stessi, ma anche per tutti i nostri fratelli nell’umanità, affinché venga il suo regno nel cuore di tutti.

                                                                                                                       Fr Gabriele


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