Omelia 31 Dicembre 2023 Santa famiglia - Anno B-

 


Quest’anno, detto anno B, e così ogni tre anni, la liturgia associa alla festa della santa Famiglia il vangelo della presentazione di Gesù al Tempio, cerimonia prescritta dalla legge di Mosè per ogni primogenito maschio delle famiglie israelite. Nel corso di tale celebrazione le famiglie più benestanti offrivano in sacrificio per la purificazione della madre un agnello o un capretto, mentre quelle più povere potevano limitarsi ad una coppia di tortore o colombi, come faranno Maria e Giuseppe.

Pratiche sociali e religiose che a noi oggi appaiono sempre meno comprensibili e legittime: per quale ragione dover riscattare il proprio figlio a Dio, quasi a lasciar intendere che su quella vita Dio avrebbe pieno potere e diritto? E ancora più all’origine, perché dei rituali per ufficializzare una nuova vita o un nuovo nucleo familiare? La vita, l’amore, non hanno valore in sé, senza bisogno di tante cerimonie per dirne la grandezza e il senso?

Il vangelo stesso ci aiuta a comprendere più in profondità il senso di questo rito che Maria e Giuseppe compiono recandosi al Tempio con Gesù: “portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore”. Lo presentano a Dio per riconoscere che è un suo dono, per confessare umilmente che anche quella nuova vita, come loro stessi, appartiene a Lui. È quindi una cerimonia che rivela un’appartenenza più che un sacrificio, un rito per riconoscere che Dio è la sorgente della vita, di ogni vita. In fondo è quanto facciamo in ogni Eucaristia: ringraziando del dono della vita, raffigurata in quel pane e quel vino che la sostengono e la rallegrano, ci disponiamo a vedere dietro al dono il Donatore, e quindi la garanzia stessa della vita ricevuta. È vero che collegare il dono alla sorgente, le vite nostre e altrui a Dio, significa in qualche modo anche dichiarare di non esserne più a tutti gli effetti i proprietari; ma nello stesso tempo significa acconsentire che quelle vite siano e divengano veramente se stesse, siano libere e si realizzino pienamente come esse vogliono e come Dio desidera.

Insieme al riconoscimento da parte di Maria e di Giuseppe del dono ricevuto, il vangelo ci parla anche di un loro essere riconosciuti: tra le tante coppie che probabilmente si recavano al Tempio con il loro primogenito, Simeone e Anna riconoscono la santa famiglia. Cosa ha permesso a questi due anziani di cogliere la particolarità di questa coppia?

Ci sono degli indizi preziosi nel vangelo per scoprire di cosa è costituita quest’arte del riconoscere:

        di loro si dice che sono in attesa di qualcosa, hanno cioè trascorso un’intera vita vigilando, vegliando, attendendo, desiderando un bene promesso, presentito.

        Sono inoltre uomini, donne in ascolto, questo desiderio stesso li ha probabilmente resi ricettivi, disponibili a lasciarsi portare dai sussurri dello Spirito.

        E sono uomini liberi, di una libertà che viene dalla fiducia di aver consegnato la loro vita al Consolatore d’Israele, al Redentore di Gerusalemme, che ora hanno tra le braccia e tra le cui braccia credono sia la loro destinazione ultima.

 

Desiderio, ascolto e fiducia sono tre caratteristiche di questi uomini di Dio che permette loro uno sguardo più profondo delle cose, un vedere oltre l’apparenza, un riconoscere la realtà dei fatti e la sostanza delle persone.

Ma riconoscere ed essere riconosciuti non fa parte soltanto dell’ambito religioso e sacrale,  tocca tutti gli ambiti della nostra vita. Leggevo qualche giorno fa il racconto della consegna della medaglia al valore alla moglie di una vittima del terrorismo. Il figlio che descrive la scena  confessa lo stupore di scoprire come una cerimonia apparentemente tanto fredda e formale possa invece suscitare emozioni tanto profonde: ma ciò si spiega nel bisogno, semplicemente e tutto umano, di essere riconosciuti nel proprio dolore sofferto, di essere riconosciuti nell’impegno vissuto per dare, nonostante tutto, il meglio di sé e non lasciarsi andare, di essere riconosciuti nell’offerta di parte o di tutta la propria vita a servizio e a beneficio della vita di altri. Se è vero che questo bisogno ha la sua degenerazione nella vanagloria, dobbiamo pure riconoscere la sua bontà e bellezza quando sa dare e ricevere valore ad ogni gesto di bontà e a ogni vita.

Riconoscere ed essere riconosciuti ci svela nelle nostre potenzialità e vulnerabilità: perché riconoscendo l’altro lo facciamo vivere, e nel bisogno di essere riconosciuti confessiamo il bisogno di qualcun altro che ci dia vita, che ci faccia esistere. E questo dalle relazioni più prossime, in famiglia, in comunità, con gli amici, fino alla relazione con Dio.

Riconoscere ed essere riconosciuti è il regalo più grande che possiamo scambiarci in queste feste, ed è la condizione per continuare a far vivere e a far crescere le nostre famiglie, le nostre comunità, la Chiesa, il mondo.

FR Amedeo

Commenti

Post più popolari