Omelia della III dom di Pasqua ( 23/04/2023 -Anno A-)

 


Il racconto dell’incontro di Gesù risorto ad Emmaus parla in realtà di due apparizioni: i due discepoli rientrati a Gerusalemme non fanno in tempo a raccontare ciò che è loro capitato lungo la via, che gli undici li precedono nel comunicare loro che il Signore è apparso a Simone.

Tuttavia, e forse non a caso, l’evangelista Luca ha avuto a cuore di raccontarci la domenica pomeriggio di Pasqua dal punto di vista di questi due discepoli semianonimi (conosciamo solo il nome di uno dei due, Cleopa, che tra l’altro compare per la prima e unica volta nel vangelo), piuttosto che narrare l’apparizione a Pietro, di cui fa soltanto un breve cenno.

E come l’evangelista Luca ha spostato i riflettori dalla tomba vuota e dalla comunità degli apostoli per rivolgerli verso due sconosciuti discepoli, anche la liturgia che stiamo celebrando in queste domeniche dopo Pasqua è andata progressivamente spostando l’attenzione dal luogo originario e dal momento della scoperta della tomba vuota (il giorno di Pasqua), alle due apparizioni agli apostoli rinchiusi nel Cenacolo per paura, prima in assenza e poi in presenza di Tommaso (che abbiamo ascoltato domenica scorsa), fino al racconto di oggi che inizia con un generico “due di loro” che stanno camminando per strada.

Scrittura e Liturgia tracciano un percorso secondo il quale, dopo aver fornito gli elementi fondanti della fede, vale a dire i racconti dei testimoni oculari del Risorto confermati dalle profezie dell’antico Testamento, diventano protagonisti coloro che su tali elementi sono intenzionati a fondare la loro vita, tutti quei “due di loro”, in cammino nel loro tempo, di cui facciamo parte anche noi riuniti qui oggi.

Sono due discepoli delusi, disillusi, che hanno appena fatto l’esperienza di un fallimento e di un lutto. E il male sperimentato ha provocato, o accentuato la loro cecità. “I loro occhi erano impediti di riconoscerlo”; letteralmente, “i loro occhi erano impossessati per non riconoscerlo”. Lo sguardo velato dal male e dalla delusione è incapace di vedere la realtà e si sofferma sulle paure, sulle proiezioni, sui deliri. Non si vedono più le persone e la realtà, ma quello che ci si aspettava da loro, o quello che di loro ci fa paura.

E allora ecco uno sconosciuto che inizia a conversare con loro. E in questa relazione fatta di ascolto e parola, in questo dialogo, la Parola lentamente “depossessa”, libera da ciò che domina il loro sguardo, i loro occhi, il loro cuore.

La Scrittura associa questo sguardo velato e incapace di cogliere la realtà, questi occhi impossessati, imprigionati in fondo dal dubbio di non essere amati, associa questo sguardo distorto al sospetto che il serpente ha insinuato fin dall’origine in Adamo ed Eva: “non è vero che Dio si è preso a cuore la vostra vita, proibendovi di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male; anzi, mangiandone, si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Lui”.

Ma c’è una conoscenza che libera, e una che imprigiona ancor più. I due discepoli sanno tutto di Gesù e di quel che gli è successo, eppure non sanno che gli stanno di fronte, che stanno camminando e parlando proprio con Lui. Si può sapere tutto di Lui, ma se non si è capito che Dio ama fino a dare la vita per noi, ancora non lo si conosce. Non si riesce ancora ad incontrare il Signore.

E la difficoltà a riconoscerlo si radica nel problema del male e del modo con cui Dio sceglie di affrontarlo: “noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele ... e invece lo hanno crocifisso”. È vero che un uomo immobilizzato mani e piedi a una croce è ben lontano dal produrre l’immagine del liberatore che vorremmo!

In fondo noi rimaniamo convinti che il male si vince con la forza, e riteniamo di riconoscere il passaggio di Dio soltanto in quelle situazioni in cui il bene trionfa con la sconfitta del nemico, con l’annientamento della menzogna.

La Pasqua, il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore, è stata necessaria per conoscere davvero Dio e sfatare quel dubbio originale del suo reale amore per l’uomo e per tutta la sua creazione: veramente “Dio ha tanto amato il mondo, talmente tanto da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

La croce è la testimonianza del suo amore infinito per noi. Ma per crederci dobbiamo capovolgere la nostra idea di vittoria: non vince il più potente, che con il suo potere produce morte attorno a sé; ma vince l’amore che sa farsi talmente forte da assumere su di sé il male e la morte senza restituirli, e così vince il male con il bene.

C’è un autore cistercense della prima generazione, Guerrico d’Igny, che aveva colto e sintetizzato tutto ciò nei suoi sermoni, affinché i suoi monaci potessero conoscere lo stile di Dio, e affinché tale stile diventasse il loro stile, in un lento ma desiderato cammino di conformazione a Cristo. Perché, sostiene Guerrico, soltanto una conoscenza di Dio che sia il frutto di un’esperienza di Lui e del suo amore, può restaurare in quell’uomo, in quella donna, l’immagine e la somiglianza di Dio. Soltanto un’anima amante può ricevere il Dio amore, perché solo colui che ha ammirato e amato l’amore che traspare in Cristo può conoscerlo in profondità. Un amore -continua Guerrico- la cui bellezza è capace di sedurre e sottomettere anche i cuori dei nemici, generando una vittoria che non comporta la perdita del nemico, con il ricorso alla violenza e alla morte, ma la sua conversione all’amore, per il fascino della sua stessa bellezza.

Fr Amedeo

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