Omelia della domenica XXVI del T.O. (25/09/2022 -Anno C-) Festa degli amici


 In un giorno che si colora di sfumature di festa, potrebbe sembrare un po' imbarazzante accogliere una Parola che richiama una “giustizia” divina, di riparazione di un divario tra ricchi e poveri, tra chi subisce le ingiustizie e chi le provoca. È certamente una “buona notizia” per il povero e il misero… ma se dovessimo immedesimarci in qualcuno - sebbene ci piacerebbe immaginarci nelle sorti finali di quel Lazzaro - forse dovremmo più lasciarci provocare dall’atteggiamento del ricco a cui non mancava nulla e aveva più del necessario. E così anche per noi… abbiamo realmente più del necessario!

Ora non desidero negare questo livello di lettura della Scrittura, che dice qualcosa di vero richiamandoci ad una dimensione morale, e che ci esorta a prenderci cura del debole e del povero. Ma il Vangelo va molto al di là di una semplice “morale” e desidererei soffermarmi anche su altri aspetti di questa Parola, che mi sembra si possano cogliere come bella esortazione nel cammino di sequela e di relazione con Dio.

Senza dimenticare di esercitare una grande vigilanza per non cadere in una insensibilità nei confronti del nostro prossimo, forse la Parola di oggi ci chiede di riconoscere la radice di quella insoddisfazione che a volte attraversa il nostro ordinario e che spesso cerchiamo di rimuovere o mettere a tacere, e ci esorta a compiere qualche passo.

Nessuno di noi in fondo può negare l’esistenza, nella vita, di alcuni “inferi” che bruciano sottilmente i nostri giorni e non ci danno pace. Ci può sembrare di vivere da “giusti”, non facendo volontariamente il male contro il nostro prossimo, ma forse poi inconsapevolmente viviamo la nostra vita sfiorando la superficie dell’esistenza, per paura di guardare sotto le fine vesti dell’apparenza e scoprire le piaghe e la fame della nostra anima che sappiamo di non poter guarire e saziare con la forza della nostra volontà, o semplicemente con un nostro impegno zelante. E questa insoddisfazione sottile che attraversa la nostra vita rischiamo di scaricarla sulle spalle di chi ci è accanto, nella erronea convinzione che è tutto il sistema attorno a noi che non funziona e che rende infelice la nostra esistenza.

È vero che spesso ciò che accade attorno a noi rende più complessa e difficile la vita. Ma ciò che è esterno a noi non è l’unica causa dell’infelicità. Forse guardando poco sotto la superficie della nostra vita, essa ci si presenta come un baratro che può farci paura proprio nella misura in cui sperimentiamo e ci rendiamo conto che quella vita, così complessa e così ferita, non è in potere delle nostre mani… ci sfugge.

Preferiamo perciò dimorare spensierati, “canterellando al suono della musica e improvvisando su strumenti musicali”, inebriandoci di tutto ciò che solletica il nostro appetito per anestetizzare questa scomoda consapevolezza.

Siamo capaci anche di costruire tutta una vita fondandola su criteri le cui scelte possono avere anche una apparenza di carità, eppure essere privi dell’assoluta gratuità dell’amore perché carichi di aspettative di un ritorno, non necessariamente “economico” o di guadagno, ma anche semplicemente di affermazione, di attenzione e di affetto. E questo inquina il nostro cuore! L’altro, le cose, la vita… tutto diviene funzionale a me e capita come al ricco epulone di non rendersi conto neppure dell’esistenza del povero che dimora sulla soglia della nostra casa, di quel povero che non solamente è un altro che è al di fuori di me, ma del povero che può essere anche la dimensione di bisogno/povertà che mi abita e che desidera essere riconosciuta, desidera essere chiamata per nome, perché sia curata e guarita.

E così rischiamo di passare i nostri giorni o tra un diletto ed un altro, non preoccupandoci della “rovina di Giuseppe”, disperdendoci negli esili delle false terre promesse. Oppure nella disperazione di una infelicità sperimentata che sembra condannarci per l’eternità, di fronte alla quale rimaniamo impotenti.

Forse dunque quel ricco e quel povero della parabola siamo contemporaneamente noi stessi. Il ricco che sfugge dalla realtà, e al tempo stesso il povero che è chiamato a non scandalizzarsi della propria situazione, perché possa dimorare nel “luogo” dove Dio abita, accolto nel seno di Abramo.

Ma cosa significa questo? La Parola allora elogia la povertà? Può essere la povertà, la diminuzione e la mancanza un segno di felicità? Forse non è questo ciò che il Signore vuole dirci oggi. Ma nel riconoscere la povertà e il limite di cui ognuna delle nostre esistenze è fatta, vi è una via che ci è mostrata per raggiungere la vita eterna alla quale tutti siamo chiamati. E forse la povertà può divenire strumento per spronarci ad affrontare il “santo viaggio”.

Questa via assume la fisionomia della buona battaglia di cui San Paolo parlava nella seconda lettura. Una battaglia che tende alla giustizia, alla pietà, alla carità, alla pazienza e alla mitezza… ma fermarsi a considerare tutto questo come ad una impresa, rischierebbe di rivelarsi come un abito di lino che si mette sopra la povertà per coprire lo scandalo delle nostre lebbre… lebbre che sotto il manto seppur bello, imputridirebbero. Il movimento da sposare è un altro e la buona battaglia che siamo chiamati ad affrontare è intraprendere la via che raggiunge il nostro cuore lì dove dimora Dio, lì dove si manifesta per noi come vita eterna.

Sì, noi siamo tempio di Dio e nel nostro cuore vi è una dimora abitata dallo Spirito. Allora riscoprire quella via che conduce al nostro cuore e dimorarvi è la buona battaglia che dobbiamo affrontare. Diceva dom André Louf che ritrovare il cammino verso il proprio cuore è il compito più importante dell’uomo. … perché ognuno porta in sé “l’uomo nascosto nell’intimo del cuore” (1Pt 3,4).

È lì, nel profondo del nostro cuore che Dio abita ed è lì che sperimentiamo la verità di quello che siamo.

Là Dio ci incontra e soltanto a partire di là noi possiamo a nostra volta incontrare gli uomini. Là Dio ci parla e a partire di là possiamo anche noi parlare agli uomini. Là riceviamo da Lui un nome nuovo [una nuova vita possibile] e ancora misterioso, che Lui solo conosce e che sarà il nostro per l’eternità nel suo Amore; e a partire di là soltanto potremo pronunciare il nome di un altro [guardare alla vita degli altri sotto un altro punto di vista], nello stesso Amore.

Sperimentando allora questa dolce presenza nel profondo della nostra esistenza, ogni cosa che ci minaccia, ogni elemento che sembra incuterci timore, ogni esperienza che sembra provocarci, si rivela nella sua inconsistenza, perché la solidità del nostro cuore e del nostro cammino trova le sue fondamenta e la sua “sicurezza” nella relazione con un Dio più intimo a me di me stesso.

Irradiati da questa verità e nutriti da questa relazione profonda, allora l’amore verso il prossimo, la giustizia, la pietà, la carità, la pazienza e la mitezza non saranno l’impegno morale che ci è chiesto per guadagnare il “paradiso”, ma semplicemente il frutto di questa buona battaglia, il frutto di questa relazione con Dio che elargisce dal suo troppo pieno i beni di cui il nostro cuore è colmato dalla grazia.

In questa domenica del tempo ordinario, che per noi si colora di festa per i segni di prossimità di tanti amici, che con la loro presenza o i loro messaggi, ci manifestano il loro affetto, la Parola di Dio forse ci conferma e ci esorta nella chiamata ad un cammino di conversione, di ritorno in sé verso quel cor profundum dove Dio abita, e ci chiede come comunità monastica di essere testimoni della bellezza e della fecondità di questo pellegrinaggio al cuore della Grazia, dove dalla materia povera di cui sono fatte le nostre esistenze, continua a sgorgare vita dalla mano creatrice di Dio.

P Emanuele

Commenti

Post più popolari