Omelia della domenica XXIV del T.O. (12/09/2021 - Anno B -)


 Oggi la Parola di Dio ci mette davanti alla nostra responsabilità di credenti; tutta la Chiesa è interpellata: forse una parte di noi sa ancora recitare il Credo e spiegarne il contenuto, proclamando di credere. Però siamo messi difronte a un esame della verità delle nostre parole. La fede in Gesù Cristo coinvolge tutta la persona e non è semplicemente un enunciato da proclamare o delle idee da difendere. Le tre letture ci presentano la necessità di vivere in verità la nostra fede sotto tre aspetti differenti.

Il Vangelo di questa domenica, molto conosciuto, ci presenta con vivacità, al modo di Marco, il divario fra la testimonianza nella vita e le parole che affermano la fede. Pietro ha risposto a Gesù in modo fermo e per noi significativo; fra la folla si dice di tutto e le opinioni si accavallano, la stima per questo nuovo predicatore, forse vero profeta e guaritore, è grande e non lascia indifferenti.

Pietro, però con chiarezza dice una cosa non troppo scontata per il ben pensare comune: Tu sei il Cristo. 

Ha compreso che non era difronte a un profeta qualunque, ma all’atteso da secoli, anche se senza un volto chiaro. Gesù, allora, lo conduce a passare da una fede enunciata a una fiducia vissuta: la fede deve essere passata al crogiolo della Passione, del rifiuto dei più, del rischio di una violenza subita. Non è un guadagno, ma una perdita, anche se alla fine è la scelta che dona la vita. Non è solo questione di dire: Io credo, ma di portarne le conseguenze e tener alta la testa difronte all’umiliazione che Gesù per primo ha subito, fino alla morte in croce, e non essere scandalizzato per qualcosa che sembra non essere politicamente corretto. 

Il Maestro che annunciava una parola di salvezza “doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”. Pietro ha cercato di far modificare questo linguaggio così chiaro e sconcertante, ma Gesù l'ha chiamato Satana, cioè tentatore, riconoscendo colui che si è presentato all’inizio della sua vita apostolica nel deserto. La tentazione è sempre quella di orientare la propria vita secondo l’apparente ben pensare del mondo, quello che sembra portare alla riuscita della propria vita, compreso il successo di una buona predicazione e di tanta fatica pastorale. 

La fede è nella risurrezione, ma questa implica la morte anche per il Messia. Ancora una volta Gesù è stato tentato a proposito della missione ricevuta dal Padre e ha rifiutato con energia e senza il minimo compromesso. Qualcosa che Dio ha detto già al tempo della scelta di Davide come re, che i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini e che guarda e giudica le cose con un metro che scandalizza gli uomini, Gesù lo ripete a Pietro e con questo mette in guardia tutti noi suoi discepoli, perché è facile addormentarsi cullati dalla logica dell’istinto umano. Gesù non caccia via, non rimprovera aspramente, ma invita a diventare sempre più suoi discepoli, ad andare dietro a lui.

San Giacomo ci conduce ad applicare questa verità della vita ai nostri buoni propositi umanitari. È tentante accontentarsi di buoni sentimenti di compassione, che ci fanno sentire brava gente, o di semplici parole di solidarietà: l’affamato va nutrito e il nudo vestito. Bisogna mettere le mani alla pasta e lasciarsi coinvolgere nella carità per il prossimo, che non è separabile dalla fede in Gesù Cristo. 

Gesù non chiede grandi opere a chi non le può fare, ma chiede a tutti di lasciarsi smuovere dal bisogno e dalle ferite altrui. Nella polemica fra fede e opere che oppone apparentemente gli scritti di Giacomo a quelli di Paolo, e che ha perdurato nella Chiesa lacerandone l’unità, si rischia di dimenticare che in Dio le cose non si oppongono, ma si danno vita a vicenda: tante opere che non tengono conto del Dio che si incarna rischiano di essere per la gloria dell’uomo e non per la sua salvezza, che ci viene donata gratuitamente, e tante dichiarazioni teologiche che non smuovono il cuore e il corpo dell’uomo possono rimanere parole vuote. La salvezza che noi speriamo non dimentica né la fede né le opere, perché la persona umana è una e vive quello che crede.

Il profeta Isaia invece ci annuncia il Salvatore non nel suo trionfo sulle forze malvagie che fanno chiasso nel mondo, ma come colui che si addossa il peso di tutte le miserie e ferite dell’umanità e salva attraverso l’umiltà e non con la forza. La vittoria di Dio in nostro favore avviene nel segreto del dono di se stesso e non nello schiacciamento del Male, come noi gli chiediamo costantemente di fare.

 Cerchiamo vie di facilità, ma queste non convertono i cuori, anzi li induriscono e il nostro rapporto con il nostro Signore e Salvatore rimane un chiedere servizi e non un’unione nel dono reciproco. D’altra parte l’unione col Cristo umiliato è un motivo di certezza e di coraggio: “Chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”

Ascoltando le parole del Signore la nostra vita prende un nuovo orientamento: è una conversione mai finita, che guarda una meta e tiene conto del percorso da fare. “Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”.

P. Cesare

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