Omelia della domenica XIII del T.O. (27/06/2021 –Anno B -)
La parola di Dio di questa
domenica sembra volerci far confrontare alla questione della morte e della
precarietà della vita. Dio non ha creato la morte, ci dice il libro della
sapienza, ma di questa morte ne facciamo però esperienza e ne siamo disarmati.
Una morte che sperimentiamo non solo come esito finale di una vita ma che accompagna tutti i nostri giorni, lì dove sperimentiamo che la vita non è totalmente a nostra disposizione.
Ci sono infatti alcuni giorni,
mesi o anni in cui ci sembra che la vita ci sfugga e ci scorra tra le mani
senza poter fare nulla per trattenerla.
Momenti in cui ci scopriamo
impotenti e a volte, per fino ridotti allo stremo… e si affaccia la tentazione
di voler gettare la spugna. Ma può capitare, proprio in quei momenti, di
sperimentare una forza che ci sprona a tentare il possibile, poiché non abbiamo
più nulla da perdere.
A volte ci rendiamo conto come
sia proprio in quei momenti che emerge senza filtro ciò che veramente speriamo
e crediamo nel più profondo del nostro cuore. Forse prima di allora non abbiamo
mai avuto il coraggio di esporci, di scommettere su quella speranza nella quale
la nostra “fede" è radicata:
quando siamo condotti al limite, non abbiamo più scuse o anche non abbiamo più alternative osiamo fare il passo e forse ci è dato di scoprire che non è il coraggio a far muovere i nostri passi, ma piuttosto il bisogno.
Certo, se pensiamo secondo la
logica che pensa che l’uomo debba essere autosufficiente e bastare a se stesso, questa consapevolezza potrebbe sembrare
umiliante e una sconfitta, ma secondo la logica di Dio questa esperienza ci
accompagna verso una grande verità: l’uomo da solo non può salvarsi ma ha
bisogno di essere salvato.
E questa salvezza passa attraverso la relazione!
Le donne del vangelo di questa
domenica ci fanno da maestre: l’emorroissa e la figlia di Giairo. Entrambe in
stato di bisogno: la fanciulla è all’estremo delle sue forze e il padre Giairo
invoca l’intervento di Gesù, e alla donna adulta, la vita sfugge come il flusso
del sangue che non le si interrompe. E pare che per entrambe i dodici anni di
vita o di malattia siano un tempo che dice molto più di un dato cronologico.
A dodici anni le persone di quel
tempo accedevano alla “vita adulta” – una vita piena - e pare che
l'evangelista, riportando questo dettaglio, voglia intendere che questa loro
situazione di infermità in fondo impedisce loro di vivere la pienezza di una
vita umana.
Non riescono da sole a fare il
passo per realizzare nella loro storia il disegno di vita piena inscritto nel
progetto di Dio. L'elemento essenziale non può essere trovato nella loro stessa
vita.
La vita raggiunge la sua pienezza
attraverso la ripresa di un contatto. La donna che aveva perdite di sangue
guarisce quando tocca il mantello di Gesù, la fanciulla è richiamata alla vita
dalle parole del Signore che la prende per mano. Il mantello… la mano… piccoli
dettagli che dicono relazione, fiducia, sostegno, protezione, salvezza.
Il desiderio della donna di toccare il mantello sembra esplicitare il desiderio di mettersi sotto la protezione di questo Maestro.
L’insistenza con cui l’evangelista richiama la necessità di un contatto fisico è per noi oggi forse una bella provocazione. Abbiamo tutti sperimentato la mancanza di relazioni belle, vitali, di un contatto anche fisico che esprimesse la pienezza di una relazione, la pienezza di un affetto dato e ricevuto… ed il vangelo di oggi ci provoca: la vita, la vita piena, è ridonata nella ripresa di un contatto, di una relazione vera.
Dio ha creato l’uomo …, lo ha fatto immagine della propria natura
ci diceva il libro dei proverbi. E la natura di Dio, di cui portiamo in noi
l’immagine, è l’essere relazione, eccedenza di vita e di amore eternamente dato
e ricevuto.
Aprirci dunque alla relazione,
con Dio e con il prossimo è la via per essere salvati e tirati fuori da quelle
situazioni di “morte" più disparate nelle quali a volte ci troviamo e
dalle quali non riusciamo ad uscire. È il Signore che ci salva e che ci mette
accanto persone che si rivelano come angeli da Lui inviati sul nostro cammino.
E se anche incontrassimo messaggeri di morte che vogliono farci credere, anche
con buon senso, che la situazione nella quale ci troviamo non ha vie di uscita,
l’invito del Signore risuoni forte nel nostro cuore: “non temere, continua ad aver fede!”: nella pienezza ritrovata della
relazione con Lui, la morte non è l’ultima parola, dietro di essa vi sono
custoditi dei germi di risurrezione.
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