Omelia per la II domenica del Tempo Ordinario (19 gennaio 2025 - Anno C)



“Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito -ci diceva san Paolo nella seconda lettura; e continuava affermando che- a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. Il bene più grande, stando alla conclusione del vangelo di oggi, è la fede: alle nozze di Cana “Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Da questo possiamo già tratte un’osservazione importante: che gli eventi della vita, anche quelli più straordinari come dell’acqua che si trasforma in vino, ci sono dati per qualcosa che va oltre il fatto in sé, ci sono dati perché dal visibile possiamo fare un salto nell’invisibile, riconoscere la gloria, la grandezza che si nasconde dietro quella realtà e credere in Dio, credere nella sua presenza e nella sua azione nel mondo e nella nostra vita.

“A ciascuno -poi- è data una manifestazione particolare dello Spirito”, precisava san Paolo;  trattandosi dello Spirito del Signore, è normale che in Gesù siano presenti tutti i carismi: il dono delle guarigioni, quello delle profezie, di sapienza, conoscenza, … e il potere di fare miracoli. Alle nozze di Cana verrebbe proprio da dire che Gesù ha esercitato il carisma dei miracoli; eppure l’evangelista Giovanni, nel commentare questo fatto, preferisce definirlo “l’inizio dei segni compiuti da Gesù”: le nozze di Cana, come pure almeno altri sei eventi straordinari narrati nel vangelo di Giovanni, vanno guardate nella prospettiva di segni piuttosto che in quella di miracoli. Forse perché se si considera un fatto come un miracolo ci si limita tuttalpiù a riconoscere la grandezza di colui che lo ha compiuto; mentre se lo si guarda come segno, ci si mette alla ricerca della verità a cui quel segno rimanda, e in che cosa essa mi coinvolge, cosa essa implica per la mia vita.

Il segno inoltre ha meno la pretesa di impressionare, di stupire: non interessa creare qualcosa dal nulla, come al contrario fa un prestigiatore che tira fuori il coniglio dal suo cappello a cilindro dopo aver mostrato che era vuoto; il segno è piuttosto nell’ordine delle cose che si trasformano, che evolvono verso una pienezza. Quelle che oggi sono delle semplici gemme e domani diventeranno fiori e foglie, seppur portano in sé qualcosa di miracoloso, partono da qualcosa di reale ed esistente, e diventano segno che è arrivata la primavera, che la vita che si era apparentemente interrotta ha ripreso a scorrere.   

Provando ad applicare al vangelo queste osservazioni, scopriamo che, secondo Giovanni, il primo segno che Gesù vuole lasciare al mondo lo compie in un banchetto di nozze. L’inizio della vita pubblica di Gesù è segnato dalla sua partecipazione a una festa, luogo per eccellenza della gioia, della vita, della convivialità; inoltre è una festa di nozze, dove si celebra l’alleanza tra due persone che si dicono pubblicamente il desiderio reciproco di appartenersi l’una all’altra, riconoscendo che la pienezza di vita non sta nell’individualismo e nella solitudine ma nella condivisione e nella comunione.

Gesù, che all’inizio del vangelo è presentato come il Verbo, la Parola di Dio, presentandosi a quell’evento, e intervenendo affinché la festa non si guasti per la mancanza di vino, benedice questo desiderio umano di vita e dice l’analogo desiderio di Dio di instaurare un’alleanza con l’umanità, il suo desiderio di entrare in comunione con ogni uomo affinché la sia vita sia piena, sia benedetta, sia felice. La sua partecipazione alla festa di nozze -di due sposi di cui non sappiamo neppure i nomi-, diventa il segno dell’amore di Dio per gli uomini; e diventano allora chiare anche le parole della prima lettura di oggi, rivolte alla terra promessa ma ancor più a coloro che la abitano, a quell’umanità che desidera questa alleanza: “Nessuno ti chiamerà più abbandonata, ... ma sarai chiamata mia gioia; … come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. La gioia di una festa di un banchetto di nozze diventa l’immagine per esprimere la gioia di Dio che ristabilisce l’alleanza con l’umanità.

C’è un altro particolare del racconto che viene a precisare il tipo di alleanza che Dio ci offre.

Non è una relazione passiva quella che Dio cerca con l’uomo, un puro lasciar fare a Dio o un subire l’azione di Dio negli eventi della nostra vita. Gesù non fa trovare le sei anfore già piene di buon vino, ma chiede che esse siano prima riempite di acqua. Un lavoro non da poco, potrebbero essere serviti una sessantina di secchi raccolti dal pozzo o dalla fontana. Chiede cioè all’uomo di metterci la sua parte, di fare quanto è in suo potere, per quanto esso sia insufficiente al raggiungimento del fine … Ma non crea dal nulla, senza la collaborazione del partner dell’alleanza, come vorrebbe invece far credere il prestigiatore tirando fuori il coniglio dal cappello; in modo molto più responsabilizzante, trasforma ciò che l’uomo ha fatto o ci ha messo di suo: trasforma dell’acqua in vino, il terreno in celeste, l’umano in divino, il corruttibile in immortale. E questo diventa segno del valore che Dio dà alla vita che stiamo vivendo, all’umano e terreno che la costituisce, ai desideri che la abitano, ai progetti che la stimolano: quello che siamo chiamati a fare è di riempire fino all’orlo la nostra umanità, permettendo a Lui a quel punto di trasformarla e portarla alla pienezza. Il mondo, la vita non vanno disprezzati o sopportati in attesa di ciò che li rimpiazzerà; ma vanno riempiti affinché Dio ne faccia cieli nuovi e terra nuova.

In conclusione, fratelli, direbbe san Paolo, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri … e il Dio della pace sarà con voi (Fil 4,8).

                                                                                                    Fr. Amedeo 


 

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