Omelia per la XXIII domenica del Tempo Ordinario (Anno C - 7 settembre 2025)
C’è una domanda di fondo che accompagna i vangeli di queste
domeniche, che quindici giorni fa un tale avevo rivolto a Gesù: “Signore, sono pochi
quelli che si salvano?”. E la risposta di Gesù non era stata del
tutto rassicurante: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”, seppur
poi il racconto si concludeva con la visione di una moltitudine arrivare da
ogni angolo della terra per sedere a mensa nel regno di Dio.
Oggi la domanda si fa ancora più personale, diretta a
ciascuno di noi: “Come posso, cosa significa seguire il Signore? Come fare ad
essere suo discepolo?”. E la risposta di Gesù si fa ancora più esigente: “Se uno viene a me e
non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Il testo originale tra l’altro usa il verbo odiare, che
tuttavia nel linguaggio a volte “estremo” di Gesù e delle lingue semitiche, non
va inteso nel senso opposto al verbo amare, ma dice piuttosto la perdita di un
primato, subordinare una cosa ad una ritenuta superiore. Non ci è d’altra parte
difficile capire come in certe relazioni lo scoprire di essere diventati
secondi, il non avere più il primo posto nel cuore dell’altro, possa farci
sentire abbandonati, rifiutati, odiati appunti, seppur si tratti di una
questione di preferenza, di precedenza.
Il Signore manifesta oggi il desiderio di questa preferenza,
di questo primato di affetto nei suoi confronti, di mettere in conto che tutto
il resto, affetti, passioni, interessi, desideri, progetti, devono rimanere
subordinati all’amore per Lui. Viene ribadito in altri termini il più grande
dei comandamenti: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come
te stesso" (Lc10,27). In fondo è bello e consolante pensare a un
Dio che chiede di essere amato totalmente, desidera il primo posto nel cuore di
ogni uomo; e non certo per un interesse possessivo, per un tornaconto personale
-Dio non ha bisogno del nostro affetto e della nostra lode-; ma perché in questa
totale apertura a Lui l’uomo realizza la sua vita, trova la sua vocazione
ultima, dà un senso a tutto il suo agire e il suo amare. In fondo Dio non si fa
concorrente e non sottrae posti agli altri affetti: semplicemente li ordina, li
purifica, li libera da legami che trattengono e impediscono di buttarsi in
quest’avventura della vita che solo una piena fiducia nella sua presenza, nel
suo amore e nella sua azione può permettere di fare.
Questa volontà di Dio è ben rappresentata nella vicenda
narrata nella seconda lettura, in cui Paolo rinvia al suo padrone uno schiavo
fuggitivo di nome Onesimo, che ha trovato protezione, e nel frattempo la fede,
soggiornando e aiutando l’apostolo. Paolo scrive a Filemone per spiegargli che
proprio a motivo dell’essere divenuto discepolo di Cristo, d’ora in poi Onesimo
non potrà più essere considerato un semplice schiavo legato al suo padrone da
vincoli e diritti di proprietà, ma la loro relazione dovrà essere dettata dalla
nuova comunanza di umanità e fraternità in Cristo. Scrive Paolo: “Per questo forse è
stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più
però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, sia come
uomo sia come fratello nel Signore”.
In tutto ciò rimane tuttavia qualcosa che stride e sembra
andare al di là delle nostre forze: sforzarsi di entrare per la porta stretta,
odiare il padre e madre, prendere su di sé la propria croce sono richieste che
ci dicono l’impossibilità di seguire Gesù, di diventare suoi discepoli, se non
a prezzo di grandi sacrifici, rinunce,
sforzi.
Ma davvero Dio vuole essere pagato, vuole che ci meritiamo
di diventare discepoli, ci considera figli solo in base a quello che siamo
capaci di fare? No, la buona notizia che è il vangelo è che essere figli è un
dono gratuito, incondizionato; che la salvezza è vivere di questa gratuità, di
questa grazia che il Signore ci ha fatto. Essere discepolo allora significa
aver capito l’amore gratuito che il Signore ha per me e iniziare a vivere di
tale dono. Diventiamo discepoli nella misura in cui accogliamo l’amore e
viviamo di questo amore.
Il primato che Dio ci invita a dargli è possibile perché è
preceduto dal primato che Dio ha dato a ciascuno di noi, e al mondo
intero,
“che ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in
lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Man mano prendiamo consapevolezza che non siamo stati noi a
scegliere Dio, ma che siamo stati scelti da Lui, desiderati e amati da Lui,
allora crescerà in noi anche il desiderio di essere indissolubilmente legati a
Lui, di essere appunto suoi discepoli, che san Paolo riassume con queste belle
parole: “questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del
Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”
(Gal 2,20).



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