Omelia per la Solennità dell'Esaltazione della Croce (14 settembre 2025)

 



Mi sembra sia sempre difficile entrare nella comprensione di questa festa, perché istintivamente la parola “croce” ci rimanda a qualcosa che non è spontaneamente attraente, ma piuttosto respingente. E parlare di esaltazione della croce fa quasi pensare ad un approccio alla fede dolorista, distante dalla sensibilità di oggi.

Eppure questa festa ci dice qualcosa di profondamente bello e di profondamente grande. E ci indica due piste di riflessione, con due accenti diversi: una pista ci indica l’orizzonte largo dell’amore di Dio, e l’altra ci offre uno strumento per avanzare nella vita ed entrare in questo amore.

 

Innanzitutto fermiamoci a contemplare l’orizzonte largo dell’amore di Dio.

L’evangelista Giovanni utilizza un termine tanto importante: “bisogna” che sia innalzato il Figlio dell’uomo.

Bisogna. C’è un urgenza nel cuore di Dio che sfocia in un “dovere”… l’amore debordante che esce dal cuore di Dio si declina con un imperativo: il bisogno che questo amore raggiunga la vita dell’uomo perché sia salvato. Sarebbe bello sfogliare le pagine del Vangelo cercando di reperire tutti i passaggi in cui questo “bisogno” abita il cuore di Gesù. Mi torna in mente il suo bisogno di fermarsi nella casa di Zaccheo – oggi DEVO fermarmi a casa tua – oppure in qualche versetto dopo il brano di vangelo che abbiamo ascoltato oggi, si narra del “bisogno” di Gesù di passare attraverso la Samaria per andare dalla Galilea in Giudea. Un “bisogno” non giustificato se non per il fatto che lungo la strada della Samaria Gesù doveva incontrare la donna samaritana per dissetare la sua “sete”, per raggiungere il suo desiderio di Dio… solitamente infatti la strada che si percorreva per andare dalla Giudea in Galilea non passava dalla Samaria.

 

C’è dunque un “bisogno” che smuove e muove il cuore di Dio, a tal punto che Dio in Gesù è disposto a “svuotare” sé stesso per fare posto nel suo cuore all’uomo. Nel cuore di Dio c’è una dimora per noi!

Lo dice bene la lettera ai Filippesi: non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.

L’amore di Dio non ci lascia mai soli, ci raggiunge lì dove siamo perché possiamo con Lui ritornare alla casa del Padre. Non vuole che nessuno di noi si smarrisca lungo i sentieri contorti che la nostra vita intraprende. È non solo una promessa… è la preghiera stessa di Gesù. Al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, ci è riportata la bellissima preghiera che Gesù stesso rivolge al Padre:

Padre ti prego perché tu li custodisca dal Maligno, Padre voglio che tutti siano una sola cosa, come tu sei in me e io in te, siano anche essi in noi… Padre voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io… che nessuno vada perduto.

È bello questo! Dio in Gesù ci è venuto a cercare e noi siamo nella preghiera di Gesù. Nessuno può strapparci dalla Sua Mano. E qui deve dimorare la nostra fiducia e la nostra speranza.

 

Ma la seconda pista di riflessione viene dalla constatazione che, nonostante questa parola di speranza, sperimentiamo le spine di una vita complessa e contraddittoria. Desideriamo profondamente una vita piena, una vita in comunione con la sorgente della Vita, Dio! Ma ci scopriamo ancora attratti da qualcosa che piuttosto che darci vita, ci rende schiavi o ci lascia in una solitudine che ci fa disperare.

 

In fondo rischiamo di lasciarci attrarre e catturare da cose che possono avere anche una apparenza di giustizia ma che ci escludono totalmente dall’orizzonte di Dio. Può essere la mormorazione silenziosa del cuore per una vita che sembra essere complicata, non giusta con noi, perdendoci l’orizzonte di un Signore che abita nell’ordinario. Può essere la ricerca incontrollata di qualcosa che compensi le “mancanze” che portiamo dentro, con l’illusione che siamo noi a doverci rimboccare le maniche perché il Signore non provvede. Può essere il desiderio di ristabilire, secondo i nostri criteri, la giustizia per i torti che abbiamo subito, non avendo il coraggio di attendere che il Signore mostri vie che sorpassino le nostre corte vedute della semplice legge del taglione. Oppure può essere il vivere godendo solo per sé quanto di bene ci è donato dalla provvidenza, accaparrando e saziandoci fino alla nausea, incuranti della sorte dei nostri fratelli e sorelle.

 

Si potrebbe continuare con una moltitudine di esempi che descrivono quelle che nella tradizione spirituale sono classificati come i vizi o le passioni che ci privano di vita e ci tolgono la libertà rendendoci schiavi.

Sicuramente se abbiamo lasciato spazio a queste passioni, ce ne rendiamo conto dal loro frutto: rimane in noi un senso di insoddisfazione, o abbiamo l’impressione di gustare qualcosa che, apparentemente dolce all’inizio, lascia un amaro che ci rende la vita disgustosa, inquieta. Oppure l’esito del nostro pensare o agire ci lascia con un senso di profondo fastidio, quasi come un bruciore che sembra rendere la vita impossibile. Insomma, si fa l’esperienza del popolo di Israele nel deserto, morso da quei serpenti brucianti che toglievano la vita.

 

Allora cosa fare? Sicuramente tutta la tradizione spirituale ci consegna la testimonianza di chi ci ha preceduto nella via di una vita che vuole aderire pienamente al progetto di Dio, per dimorare nel cuore di Dio senza lasciarsi portare lontano dalle passioni. E molto è stato scritto sulla dimensione della lotta spirituale. Ma come si entra in questa lotta? Cosa bisogna fare?

A volte capita che, presi da alcune tentazioni o passioni che ci privano di vita (ira, gola, lussuria…) ci concentriamo ad affrontare una battaglia prendendola di petto, cercando di comprendere il problema alla radice, di analizzarne le dinamiche, e di conoscere quella passione nemica per poterla renderla innocua, impotente… per vivere una vita libera, una vita pura.  Sicuramente è una via buona, ma non è esente da alcuni rischi: quello di vivere questa battaglia solamente con la forza di volontà, volendo vincere con le nostre sole forze sulla passione, e quello di considerare tutta la nostra vita spirituale forse troppo concentrati su di noi, sulla nostra perfezione e sulla nostra “santità”.

La Parola di Dio che ci è donata in questa solennità ci propone anche un’altra via: quella che semplicemente porta ad elevare il nostro sguardo a Colui che hanno trafitto, alzare il nostro sguardo su Gesù, perdendoci in Lui, nel Suo Amore. Interessante… il popolo di Israele non è chiamato a eliminare la causa del loro male – i serpenti brucianti che mordono l’uomo - ma di distoglierne l’attenzione, elevando semplicemente lo sguardo… come fossero non curanti di ciò che sta accadendo e lasciandosi irradiare da Colui che è innalzato. Insomma attraversare la sfida della tentazione, avendo davanti semplicemente e solamente Dio. Tutto il resto allora sfuma, perde di importanza e perde di attrattiva.

 

Pensando a questo mi tornava in mente una citazione tratta dal bellissimo testo di p. Eloi Leclerc, La sapienza di un povero, nel quale ripercorre l’esperienza spirituale di Francesco di Assisi. Ad un certo punto viene riportato un immaginario dialogo di frate Francesco con frate Leone:

 

Ah, frate Leone, credimi - ribatté Francesco; - non ti preoccupare tanto della purezza dell’anima tua. Volgi lo sguardo a Dio. Ammiralo. Rallegrati di Lui che è tutto e soltanto santità. Rendigli grazie per Lui stesso. Questo, appunto, significa avere il cuore puro.

E quando ti rivolgi a Dio così, guardati bene dal tornare a ripiegarti su te stesso. Non chiederti mai a che punto sei con Dio. La tristezza che provi nel sentirti imperfetto e peccatore è un sentimento ancora umano, troppo umano. Bisogna guardare più in alto, molto più in alto. C’è Dio, l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quel cuore che non cessa di adorare il Signore vivo e vero. Il cuore puro non si interessa che alla esistenza stessa di Dio, ed è capace, pur in mezzo alle sue miserie, di vibrare al pensiero dell’eterna innocenza e dell’eterna gioia di Dio. Un cuore siffatto è al tempo stesso sgombro e ricolmo. Gli basta che Dio sia Dio. In questo pensiero il cuore trova tutta la sua pace, e tutta la sua gioia. E Dio stesso diventa allora tutta la sua santità.

 

In questa solennità, contemplando l’amore di Dio che in Gesù dona la vita per tutti gli uomini, chiediamo al Signore questa libertà: di poter alzare lo sguardo dalle nostre piccole miserie, dai nostri piccoli orizzonti, ed immergerci nell’orizzonte di quell’amore che la Croce ci testimonia. In Lui troviamo la nostra pace!

fr. Emanuele

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