Omelia per la Solennità del Sacro Cuore di Gesù - 27 giugno 2025
Nella lingua italiana c’è una bella espressione “avere a cuore”!
Usiamo questa espressione quando
vogliamo dire che ci teniamo a qualcosa, a qualcuno. Che questa cosa o questo
qualcuno è oggetto dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni. Ma soprattutto
nell’ambito della relazione, si ha a cuore qualcuno quando lo si ama, quando si
desidera il bene per l’altro, quando sembra di non poter fare a meno di questa relazione.
E oggi ci troviamo qui insieme
per celebrare questa festa del Sacro Cuore di Gesù! Facciamo memoria di questo
prendersi a cuore le nostre sorti. Gesù ha cura nei nostri confronti… il Signore
ha a cuore la nostra felicità. Ogni figlio di Dio, ogni creatura è oggetto di
questa cura premurosa! Fissare la nostra mente a questo Dio che ha a cuore il
nostro cammino è ciò che dovrebbe trasformare le nostre esistenze. Non siamo
dimenticati, non siamo abbandonati e questo è fonte di gioia. Anzi, c’è una
altra sottolineatura che la parabola ci consegna. Dio è come un pastore che
salva la pecora perduta, senza che le sia richiesto nulla. Non le è chiesto di
riprendere la strada di casa, non le è chiesto di comportarsi in un determinato
modo… è solo cercata, curata, riportata a casa.
Sono due le sole cose che è
chiesto di fare alla pecora: accogliere la consapevolezza del deserto nel quale
si è persa e lasciar fare al Signore.
Accogliere la consapevolezza del
deserto nel quale ciascuno si è perso, vuole dire dare un nome alla situazione
particolare e concreta che ci ha allontanato dalla vita. Questa consapevolezza
non può rimanere vaga dicendo che siamo semplicemente dei peccatori. Abbiamo bisogno
di essere raggiunti, lì in quella situazione concreta che ci priva di vita, che
ci lascia nella solitudine, lontani dalla relazione con Dio e con i fratelli.
Forte è l’espressione con la quale si chiude la pagina di vangelo che abbiamo
ascoltato: ci sono novantanove “giusti”
che non hanno bisogno di conversione. Non hanno bisogno… una espressione
che dovrebbe farci tremare perché è una autosufficienza che ci esclude dalla
relazione vitale con Dio.
La seconda cosa è quella che,
riguadagnata la consapevolezza di dover essere raggiunti, dobbiamo lasciar fare
al Signore. Come la pecora, dobbiamo lasciare che il Signore ci prenda sulle
sue spalle per ricondurci al Suo cuore. E lasciar fare potrebbe voler dire
anche lasciare che la vita faccia il suo corso, che attraverso ciò che accade
il Signore, attraverso gli incontri che facciamo, attraverso i fratelli che ci
sono messi accanto e che ci scomodano chiedendoci di uscire dai nostri
isolamenti. Il Signore ha a cuore la nostra vita e si prende cura di noi
attraverso la vita…
Rinnoviamo la nostra fiducia in questo
Dio che ci salva, ed entriamo nella gioia del saperci cercati, amati, salvati.
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