Omelia per la Solennità di Pentecoste - 8 giugno 2025

Con la solennità di Pentecoste approdiamo in questa domenica al termine del lungo cammino del tempo pasquale, contemplando la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti in preghiera nel cenacolo. Ma piuttosto che di approdo, sarebbe corretto parlare di una nuova partenza.

I discepoli avevano condiviso lunghi anni con Gesù e anche dopo la risurrezione avevano goduto ancora della presenza del Maestro nel suo corpo risorto per quaranta giorni.

Ma ascendendo al cielo, Gesù non li abbandona, promettendo loro lo Spirito.

Invitandoli a dimorare nella preghiera nel cenacolo, i discepoli, certo, sono confrontati con la mancanza del Maestro la cui familiarità aveva riempito gli ultimi anni della loro vita, ma questa mancanza ora non è per loro fonte di tristezza, perché in questo “vuoto” che sperimentano vedono la caparra della venuta di Colui che è stato promesso e i loro cuori preparano uno spazio vuoto per accogliere il dono che viene dall’alto!

Questo è consolante anche per noi! Ogni nostra mancanza o vuoto che sperimentiamo può assumere la fisionomia di una promessa! Il dono della Vita ci è promesso e lo attendiamo con fiducia.

Infatti oggi contempliamo ciò che è avvenuto per i discepoli: la promessa in loro si è compiuta e ricolmi di Spirito Santo, si rimettono sulle strade di Giudea e del mondo… esperienza di una nuova partenza!

Anche per noi allora oggi questa festa ci annuncia la promessa di sempre nuove partenze. Il nostro cammino non ha raggiunto ancora il suo termine. Davanti a noi ci attende qualcosa di sempre più grande e sempre più bello che ancora non sappiamo immaginare, non osiamo neppure sperare. Ed invece c’è! Dobbiamo attendere lo Spirito, dobbiamo rimetterci in cammino… ma è il Signore che compie in noi l’opera della salvezza e ci accompagna in un modo tutto suo.

Dalle letture che ci sono consegnate oggi ritengo due semplici sottolineature che condivido.

Nella prima lettura viene narrato il prodigio della Pentecoste sulla comunità dei discepoli riuniti nel cenacolo. Un fragore di vento impetuoso irrompe nel cenacolo e come il vento che gonfia le vele spingendo la nave verso il mare aperto, così i discepoli sono spinti a prendere il largo, nelle strade di Gerusalemme annunciando le opere di Dio nelle varie lingue e il cronista annota che ognuno sentiva proclamare la parola nella propria lingua nativa.

In questo è prefigurato l’annuncio della buona notizia fino ai confini della terra. Ma mi piace pensare anche che in questo dettaglio sia custodito qualcosa di ancora più prezioso che parla dell’agire di Dio, che con delicatezza ci raggiunge per salvarci, per farci prendere il largo.

Parlare di lingua nativa è parlare di una lingua che è immediatamente comprensibile, che non dà adito ai fraintendimenti. Facciamo fatica quando ci troviamo in una nazione straniera a capire ciò che ci viene detto o facciamo fatica a comunicare. Quando invece si parla la lingua materna, la comunicazione è immediata e la comprensione è piena. Ora Dio nella sua bontà di Padre non ci chiede di essere subito all’altezza del linguaggio che vuole farci parlare, il Suo, ma ci viene incontro parlandoci con un linguaggio che siamo in grado di comprendere. Nello Spirito, Dio parla la lingua nella quale siamo a nostro agio ma non per lasciarci lì… piano piano ci conduce però ad apprendere lingue sempre nuove per poi conformarci pienamente alla Sua: la lingua della Carità.

Mi colpisce per esempio l’evoluzione della comprensione di alcune parole che sono i pilastri fondamentali che orientano la nostra vita, come amore, giustizia, pace – per la quale tra l’altro siamo invitati a pregare in modo particolare oggi. Questi termini per ciascuno di noi oggi assumono un significato particolare, diverso rispetto a quello che avevamo qualche anno fa… e sarà diverso anche rispetto a quello che avremo domani. Se desideriamo vivere questi fondamenti della vita secondo il cuore di Dio, dimorando in un atteggiamento di preghiera e di ascolto, lo Spirito ci insegnerà lingue sempre nuove, con le quali declinare ciò che è già conosciuto, gustando e comprendendo con sempre maggiore profondità ciò che ci è già familiare e ciò che dà vita.

Una seconda sottolineatura la prendo dal Vangelo. Le ultime parole di Gesù che abbiamo ascoltato ci consegnano la promessa:

il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto 

 Vi ricorderà

Bello questo termine! Usato per riferirsi a qualcosa che è custodito nella memoria, questo termine ha tuttavia un colore tutto particolare perché nella sua radice porta la parola “cuore”. C’è una memoria, quella del cuore, che è iscritta sin dalla nostra nascita. C’è qualcosa che conosciamo da sempre perché è come nel nostro DNA. Il nostro cuore è stato creato ad immagine di Dio. Noi siamo figli di Dio e la lingua che il Signore vuole insegnarci, la sappiamo da sempre. Ne abbiamo solo perso la pratica… oppure non l’abbiamo mai praticata… ma ci è familiare, perché è la nostra!

 E lo Spirito ci è inviato per imparare a ricordare, per riportare alla consapevolezza della nostra mente e del nostro cuore, le cose che già conoscevamo… da sempre. Il Signore ci fa fare esperienza di qualcosa di nuovo, ma questo nuovo ci è comunque familiare. Sperimentata la novità, ci pare evidente che sia così.

 In questa festa che siamo chiamati a celebrare, ci è ricordato che c’è una vita e una lingua che già conosciamo, c’è un cuore che è fatto ad immagine e somiglianza di Dio e lo Spirito vuole accompagnarci a renderci sempre più consapevoli del dono che abbiamo! Lo Spirito vuole ricordarcelo! Vuole renderci consapevoli di quanto già con il cuore sapevamo già!

Questa consapevolezza rinnovata allora mette ali ai nostri piedi, non ci fa temere di intraprendere nuovi cammini…

 Chiediamo allora al Signore che le nostre paure e le nostre resistenze non siano di impedimento all’Opera che Dio ha compiuto già in noi e alla quale desidera che noi aderiamo.

 

fr. Emanuele 

 

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