Omelia della domenica XXXI del T.O. (05/11/2023 -Anno A)

 


La parola di Dio di questa domenica ci parla di paternità, di maternità: il Signore si manifesta come Padre, Paolo si presenta ai suoi come una madre… ma ci sono riportati da Gesù anche esempi di “paternità” che hanno abusato del proprio ruolo per trarne beneficio personale, noncuranti del bene di coloro verso i quali il servizio di questa paternità era destinata. Osservate tutto ciò che vi dicono ma non agite secondo le loro opere…

La prima lettura è un monito contro i sacerdoti di Israele e Gesù avanza una critica contro l’agire di scribi e farisei…

sembrerebbe dunque che la Parola sia rivolta solamente a una certa categoria di persone. Certo, non possiamo dire di non sentire queste parole come familiari. Forse ciascuno di noi può ben aver presente volti e nomi di chi si è assunto un ruolo di paternità, o di qualsiasi forma di responsabilità nei nostri confronti e dai quali ne siamo rimasti feriti, delusi, scottati per la contraddizione tra ciò che proclamato e ciò che da loro è stato vissuto.

Ma al termine del suo discorso Gesù coinvolge tutti i suoi ascoltatori… ma voi non fatevi chiamare…

Senza pensarci troppo, con una lettura forse troppo rapida potremmo rischiare infatti di passare oltre a queste provocazioni dicendoci che ciò che Gesù dice qui non ci riguarda. Difatti in modo meno spontaneo ci troviamo a metterci nelle vesti di coloro che si sono seduti sulla cattedra di Mosè… una cattedra scomoda, sulla quale, se si è onesti con sé stessi, ci si rende subito conto che c’è uno scarto tra l’ideale che si proclama e ci si prefigge e ciò che si può realizzare nella propria vita.

Dobbiamo riconoscere che non si è mai pienamente all’altezza di quella Vita che desideriamo vivere e che siamo chiamati anche ad annunciare, testimoniare con le parole e con le opere!

Non tutti certo sono chiamati ad un ruolo esplicito di paternità, ma certamente tutti noi – chi in un modo e chi in un altro – esercitiamo una responsabilità a servizio dei fratelli. Ed è nel cuore dell’assunzione di questa responsabilità che ci è possibile di fare uno scatto di qualità, quello che ci domanda oggi Gesù attraverso le provocazioni riportate dal vangelo di Matteo.

Si potrebbe sintetizzare con questa domanda: Nell’assunzione del servizio che mi è chiesto quale spirito anima il mio agire?

Credo che se il Cristo mette sotto la luce dei riflettori questi rabbì non è per provocarci a gridare allo scandalo! Non ci

sarebbe bisogno di un Vangelo per indicare le contraddizioni degli altri e giustificarci nell’esserne scandalizzati. E non avrebbe alcun senso venire a messa ad ascoltare la Parola per ritornare poi nelle nostre case contenti del fatto che nel Vangelo ha parlato per il mio vicino, è stato annunciato che gli altri hanno bisogno di convertirsi e di cambiare. Il Vangelo è parola di Vita per ciascuno di noi.

Gesù ci consegna allora queste parole scomode e per certi versi graffianti, per portare alla luce un bisogno proprio dell’uomo e per metterci in guardia da una modalità distorta che l’uomo può attuare per rispondere a quel bisogno.

Dietro l’atteggiamento di questi farisei, di questi “padri” che ci sembrerebbero “perversi”, forse sarebbe da riconoscere

il grande bisogno e il grande desiderio che abita nel cuore di tutti: l’essere riconosciuti. Chi di noi non vuole essere riconosciuto, amato! E non c’è nulla di male. Ma di questo bisogno, è necessario prenderne consapevolezza, altrimenti agisce in noi senza che ce ne rendiamo conto.

Infatti può generarsi confusione quando, per essere riconosciuti, ci si appropria di ciò di cui dovremmo essere dispensatori. Quando ci facciamo padroni della vita che siamo chiamati a donare, quando ci sentiamo proprietari di ciò di cui siamo solamente chiamati a condividere.

Un padre e una madre, sebbene siano coloro che si fanno tramite della vita, non sono all’origine della vita. Eppure quante volte cadiamo nel tranello di volerci sentire noi all’origine di quella vita che è stata trasmessa ai nostri figli!

Quante volte ci confondiamo nel considerare “nostra” quella “sapienza” che condividiamo a quelli che siamo chiamati a servire. Ma questa è una menzogna che la nostra povertà mette in atto per poterci sentire riconosciuti, per poterci sentire amabili, per poterci sentire importanti…

In fondo è come se, impossessandoci di ciò di cui dovremmo essere servitori, elemosinassimo le briciole di un affetto, di un riconoscimento, dimenticandoci che è a nostra disposizione una sorgente d’acqua abbondante alla quale è possibile andare a dissetarci. Certo potremmo dire che non c’è niente di male poter rallegrarsi di far da tramite di questa sapienza che passa attraverso le nostre vite. Ma porre la nostra gioia e la nostra realizzazione in questo sguardo posto su di noi e su quello che possiamo fare, ci lascia sicuramente con l’amaro in bocca.

C’è un Padre nel cielo verso cui orientare il nostro sguardo ed è da Lui che abbiamo la vita, da Lui siamo riconosciuti, da Lui siamo profondamente amati non per quello che facciamo o diciamo ma per quello che siamo. Perché allora fare tanta fatica per elemosinare da altri quella vita e quell’amore che sicuramente è limitata?


È interessante vedere come il Signore si prende cura di noi e quali modalità a volte utilizza per insegnarci a ricevere la Vita dalla sorgente zampillante del Suo Cuore di Padre piuttosto che da stagni dalle acque imputridite…

Nella prima lettura si racconta che Dio rende spregevoli e abietti davanti al popolo i sacerdoti… certo! Sembrerebbe che lo faccia per punirli per i loro misfatti o per la parzialità delle loro azioni o del loro insegnamento (ma possiamo domandarci chi non sia parziale?!?! tutti vediamo la realtà da un’angolatura che non è mai la totalità!).

Ma mi chiedo se Dio non li avesse resi spregevoli non solo per correggere una deriva pericolosa per il popolo, ma anche perché essi non cadessero nell’illusione di aggrapparsi alle misere lusinghe di chi si dice discepolo di questi sacerdoti.

Quasi per far loro percepire il deserto e la mancanza di riconoscimento sulla terra al fine di essere per certi versi “obbligati” ad alzare la testa verso la Sorgente della Vita, alzare la testa al cielo e ricordarsi che c’è un Padre Celeste, lo stesso Padre che nutre tutto il suo popolo, in egual misura!

è sotto il Suo sguardo che siamo posti, ed è da Lui che siamo riconosciuti, amati, tenuti in vita. E non c’è nessuno e nulla di questa vita che colmi quella sete che portiamo nel cuore, così come dobbiamo riconoscere anche che non c’è nessuno o nulla che sia così potente da essere di impedimento alla Vita che ci viene incontro dal Signore.

Che l’altro dunque mi riconosca o no, che l’altro mi dispensi la vita di cui è dispensatore o no, che l’altro mi ami o si ponga in atteggiamento di competizione con me … nulla colma e nulla minaccia la mia vita! La vita di cui ho bisogno il Signore la dispensa con larghezza e con la creatività che gli è propria! Dobbiamo solo coltivare uno sguardo capace di riconoscerlo!

C’è un solo Padre, c’è un solo maestro, c’è una sola guida: il Padre che è nel cielo, il Figlio suo Gesù Cristo, lo Spirito consolatore. E questa Vita che viene dal cielo, ci è dispensata ogni giorno. Perché Egli ha cura di noi come una madre che ogni giorno allatta il proprio bambino.

Non andiamo allora in cerca di “cose grandi” elemosinandole dagli uomini. Ma come bimbi fiduciosi, abbandoniamoci alle braccia del Padre. Volgiamo a Lui costantemente il nostro sguardo e attendiamo da Lui ciò di cui abbiamo bisogno.

Ed Egli, con la creatività che è propria di Dio, ci raggiungerà nelle pieghe ordinarie della nostra vita.

P Emanuele

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