Omelia della domenica XXX del T.O. (29/10/2023 - Anno A-)

 



Le due letture che precedono il vangelo di oggi sono una bella concretizzazione e applicazione del comandamento dell’amore, il grande comandamento che, secondo Gesù, fa da sfondo e ricapitola tutta la Parola di Dio, tutta la volontà del Padre.

Una prima ragione per amare, per volere il bene dell’altro e quindi astenersi dal male è quella di aver vissuto, sperimentato la stessa condizione dell’indigente che ora ci sta dinnanzi: “Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto”. L’amore del prossimo dovrebbe naturalmente scaturire dall’esperienza personale vissuta: so cosa significa quello stato, quella situazione, ho conosciuto la sofferenza, il dolore che quella condizione comporta: come potrei non provare ad alleviare quel male, non desiderare di evitare una sorte simile a qualsiasi altra persona? È quello che chiamiamo compassione, patire insieme, mettersi nei panni dell’altro e avvertire il male che prova perché se ne è fatta esperienza su di sé; e non poter che sperare e cercare per lui il bene: amerai il tuo prossimo come te stesso.

Purtroppo non è scontato il sentimento della compassione: vuoi perché non si è ancora raggiunta una piena conoscenza di se stessi, il ricordo di cosa è significato quel male, di aver provato quel dolore sulla propria pelle; vuoi perché quel dolore a volte può addirittura rendere cinici, fino ad arrivare a sostenere quella logica da caserma che se io ho dovuto patire quel male ora è giusto che lo patisca anche l’altro.

E allora la prima lettura ci fa compiere un ulteriore passo per intendere come si concretizza l’amore del prossimo: “Non maltratterai la vedova e l’orfano ... perché un giorno le vostre mogli potranno essere vedove, i vostri figli orfani”. Non c’è soltanto la propria esperienza passata che può suscitare l’amore, ma anche la prospettiva futura. Il desiderio, la speranza di un futuro di bene per me e per i miei cari mi porta a capire qual è il bene di cui fin da ora il mio prossimo ha bisogno. “Non tratterrai in pegno il mantello del tuo prossimo oltre il tramonto, è la sola coperta per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo?”. Amare il prossimo come se stessi richiede quindi anche immaginazione, intuire ciò di cui l’altro ha bisogno, riconoscendo quali sono i miei propri bisogni e desideri.

Questa conoscenza di sé, questo lavoro di riscoperta, rivisitazione di ciò che abbiamo vissuto e di riconoscimento dei desideri profondi, delle aspirazioni che ci abitano e che in fondo abitano ogni uomo, non è quindi solo un lavoro egoistico e di auto-perfezionamento, ma è la condizione per comprendere l’altro, entrare in sintonia e quindi fare all’altro quello che desidereremmo fosse fatto a noi, l’amore del prossimo appunto.

Questa conoscenza di sé inoltre fa da ponte tra il secondo e il primo comandamento dell’amore.

Cos’è che mi rende libero, che mi fa felice? O per riprendere le parole di un salmo: “C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene? (Sal 33,13)”.

Nella seconda lettura san Paolo, descrivendo il cammino di fede dei cristiani di Tessalonica a cui si sta rivolgendo, suggerisce questa risposta: “Vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero, e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale vi libera dall’ira che viene”. L’amore di Dio al di sopra di ogni cosa è un cammino di liberazione dagli idoli, è un cammino di libertà di fronte a tutto il resto, tutto ciò che non è Dio. Quelli che all’epoca di san Paolo erano gli idoli, gli dei pagani, forse non sono altro che la personificazione di quanto oggi, in una cultura e linguaggio meno religiosi, chiamiamo potere, successo, ricchezza, seduzione, benessere, piacere.

Essi non sono ancora un male in sé, nella misura in cui rimangono strumenti a servizio della vita.

Ma quando diventano fini, si sostituiscono, prendono il primato sulla relazione con gli altri e con Dio, allora rendono schiavi. Il primato del comandamento dell’amore di Dio dice il primato della relazione sull’individualismo, il primato del bene comune sulla ricerca del bene personale.

Non è scontato, soprattutto nella nostra cultura attuale, accettare questo primato di Dio: bisogna anzi riconoscere il paradosso che il Signore ci propone, quando ci invita a perdere la nostra vita per causa sua, come via per salvarla, per un cammino di libertà. Più che capire, possiamo osservare, nella vita di Gesù e dei santi, la bontà dell’obbedienza al comandamento dell’amore, l’esito finale di una vita vissuta in un rapporto di amore con il Padre e con il prossimo. Franz Jàgerstàtter, un contadino austriaco determinato a vivere fino in fondo l’amore di Dio e del prossimo, rifiutando di arruolarsi nell’esercito nazista o anche solo di giurare per questa ideologia, poco prima di essere giustiziato scriveva: “Quando abbandoni l’idea di dover salvare la tua vita a tutti i costi, allora una nuova luce si accende”.

Fr Amedeo

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