Omelia IV dom di quaresima (19/03/2023 - Anno A-)
Nel vangelo di Giovanni ci sono vari racconti che
definiremmo comunemente miracoli, e che invece l’evangelista chiama segni.
Segno è qualcosa che ricorda, che rimanda a qualcos’altro: il racconto non si
accontenta di narrare il fatto in sé, per quanto possa essere prezioso già in
se stesso, ma vuole portare l’ascoltatore ad un altro livello, a cogliere una
realtà che va oltre quella descritta nei fatti.
Anche il racconto della guarigione del cieco nato è
costruito in questo senso, tanto da costituire il quinto dei sette segni del
vangelo di Giovanni.
Ci sono alcuni indizi che avvalorano questa interpretazione:
del cieco in questione non ci viene detto il nome, diversamente ad esempio dal
racconto della guarigione del cieco Bartimeo, che Gesù incontra uscendo da
Gerico. Oggi invece è semplicemente un uomo, cieco dalla nascita, che compie un
progressivo cammino di guarigione, perché il recupero della vista è soltanto la
prima tappa di una illuminazione che andrà via via crescendo nel corso del
racconto. È quindi un uomo che rappresenta ogni uomo, che rappresenta l’intera
umanità potenzialmente capace di intraprendere questo cammino dalla cecità alla
vista, dall’incredulità alla fede. È quindi simbolico anche l’oggetto della
visione: il recupero della vista gli consente di vedere la realtà, di prendere
contatto soprattutto con la propria realtà; e tale visione lo porta a credere
che Gesù è il Figlio di Dio.
Aprire gli occhi sulla realtà è molte volte difficile,
scomodo, faticoso, forse non è esagerato dire che a volte può arrivare
addirittura a fare schifo, per usare la stessa impressione che suscita il mezzo
di cui Gesù si serve per guarire, un po’ di fango fatto con la sua stessa
saliva, dopo aver sputato a terra.
Il fango rimanda alla creazione di Adamo, alla materia di
cui Dio ha voluto servirsi per crearci; il fango ancora rimanda alla terra,
all’humus, da cui deriva la parola umiltà, di cui Dio invece non si schifa, ma
decide di rivestire il suo proprio Figlio: “Cristo Gesù, pur essendo nella
condizione divina, … diventando simile agli uomini … umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Il fango addirittura
rimanda alla parte più bassa dell’uomo, più
degradata, “affondo nel fango e non ho sostegno, sono caduto in acque
profonde e l’onda mi travolge”; infangare qualcuno significa screditarlo,
diffamarlo, disonorarlo.
E nonostante tutto ciò, Gesù decide di darci la salvezza con
il suo fango, ci mette davanti agli occhi, ci mette sugli occhi la sua umanità.
Fino a lasciarsi vedere nudo e sfigurato appeso alla croce, nella forma più
disonorata e screditata: “Cristo ci ha
riscattati ..., diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è
appeso al legno” scrive san Paolo nella lettera
ai Galati (Gal 3,13).
Non è il Dio e salvatore che vorremmo e ci aspetteremmo; al
pari di Naaman il siro, che si era rivolto al profeta Eliseo per essere guarito
dalla lebbra e si era tanto sdegnato di fronte al comando che il profeta gli
aveva mandato a dire, di immergersi sette volte in un torrente tanto misero e
torbido quale gli appariva il Giordano, anziché essere ricevuto e guarito ad
opera dell’intercessione potente di un uomo di Dio e l’imposizione delle sue
mani.
Il Dio di Gesù Cristo vuole salvarci attraverso la nostra
misera umanità. Ci salvano i nostri limiti, la nostra umiltà e umiliazione.
Gesù non ce li toglie, ci offre semplicemente la possibilità di prenderne
visione, e tuttavia non senza la nostra collaborazione, la nostra libera adesione
alla sua proposta: “Va’ e làvati alla piscina di Siloe”. Se ne abbiamo
la volontà e il coraggio, ci si aprono gli occhi e vediamo la realtà, la verità
di noi stessi; verità che però dovrà essere ulteriormente illuminata da Cristo,
che all’inizio del vangelo di oggi si definisce “luce del mondo”.
È la progressione del cammino di guarigione e illuminazione
di questo cieco, modello di ogni discepolo del Signore. Ritorna dalla piscina
che ci vede, ma non ancora pienamente; dovrà ancora compiere un cammino di
purificazione, confrontandosi e scontrandosi con tanti, persino con i propri
genitori, per giungere a vedere chiaramente nel profeta Gesù il Figlio
dell’uomo, e a vedere se stesso alla luce di Cristo.
Nella seconda parte del vangelo ricorre tantissime volte il
verbo sapere: “Sappiamo che a Mosè Dio ha parlato; ma costui non sappiamo di
dove sia” affermano i farisei. “Sappiamo che questo è nostro figlio, ma
come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi non lo
sappiamo” si difendono i genitori che per paura prendono le distanze dal
figlio.
L’ultima
tappa, la guarigione definitiva che Gesù fa compiere al cieco nato è il
passaggio dal sapere al conoscere. Anche lui sa tante cose di Dio, sa che Dio
non ascolta i peccatori ma esaudisce chi lo onora e fa la sua volontà. Ma c’è
bisogno che Gesù si riveli apertamente a lui perché il suo sapere su Dio si
trasformi nel credere in Lui.
Di per sé neppure il miracolo della guarigione dalla cecità gli
ha ancora svelato la vera identità di Gesù, come neppure se uno risorgesse dai
morti, spiegava Abramo al ricco epulone, basterebbe a persuadere i suoi
familiari accecati dalla loro opulenza.
Gesù
si fa di nuovo presente alla fine del racconto, all’uomo ormai rimasto solo,
rimandato alla sua essenzialità. E gli chiede: “Tu, credi nel Figlio
dell’uomo? Lo hai visto, è colui che ti parla”. Domenica scorsa
parole simili le aveva rivolte alla Samaritana, anch’essa intenta a teorizzare
la futura venuta del Messia: “Sono io, che parlo con te”. L’incontro con
il Signore conduce finalmente questo uomo e questa donna a non più parlare di
Dio, ma a parlare con Dio, ad entrare in una relazione personale con Lui.
L’augurio che allora ci possiamo fare per il cammino di questa
seconda parte della quaresima, e per l’intero cammino della nostra vita, è ciò
che è stata anche l’esperienza di Giobbe, che al termine del suo indagare su
Dio, e finalmente aprendosi al mistero della sua propria miseria e della
misericordia di Dio, esclama:
“Io
ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”.
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