Omelia della domenica VI del T.O. (12/02/2023 -Anno A-)

 



In queste domeniche siamo ancora con Gesù sulla montagna, dalla quale ha pronunciato questo lungo discorso raccolto nei capitoli 5-7 del vangelo di Matteo. E questo ci permette di osservare che le esigenti parole che abbiamo iniziato ad ascoltare oggi e continueremo a farlo domenica prossima, sono in realtà strettamente legate a quelle che avevamo ascoltato quindici giorni fa, le beatitudini. Nel loro insieme potremmo immaginarle come i due lati di una stessa medaglia, di una moneta che ha da una parte testa e dall’altra croce. Le teste impresse sulle monete, spesso ornate e abbellite da una corona di alloro, rappresentano il lato beato dell’assimilazione a Cristo, la bellezza che già si intravvede nelle persone che si vanno conformando a lui; mentre il lato opposto, che chiamiamo croce -anche se non mi pare che ci siamo monete attuali che realmente ce l’abbiamo impressa-, raffigura la parte più laboriosa, più faticosa di questo cammino di conformazione a Gesù.

C’è innanzitutto da fare la fatica di una nuova comprensione della legge. “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”; è necessario un superamento della semplice idea di giustizia per entrare nella logica delle beatitudini, non basta la più scrupolosa e rigorosa osservanza della legge per entrarci, per assumere e mettere in pratica lo spirito che la legge del Vangelo vuole suscitare.

Perché per Gesù la legge in fondo si riassume nel comandamento dell’amore di Dio e del prossimo: ogni divieto a ledere la vita e i diritti dell’altro trova il suo fondamento nel fatto che sono chiamato a riconoscerlo come uomo con la sua dignità, e quindi a non disprezzarlo e sminuirne il suo valore definendolo stupido, pazzo. Sono chiamato, in quanto figli di un unico Dio, a riconoscerlo fratello e quindi riconciliarmi con lui prima di recarmi all’altare per ringraziare il nostro stesso Padre; anche perché è questo reciproco perdono il più grande dono che possiamo offrire; sono chiamato a passare dal considerarlo avversario a fratello, e di approfittare del tempo in cui gli cammino a fianco, il tempo della vita, per accordarmi e fare pace con lui.

Ecco allora perché Gesù nelle beatitudini esalta i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace: sono beati perché hanno saputo fare della loro vita e di quella degli altri un luogo di rispetto, di pazienza, di perdono e di riconciliazione. Hanno saputo, seppur a caro prezzo, a non scivolare, loro e quanti avevano a che fare, nell’inferno delle accuse reciproche, delle calunnie, dell’ipocrisia e della menzogna … Purtroppo basta molto meno di un omicidio per trasformare la vita in un carcere e in un inferno, ed è per questo che il Vangelo ci traccia una via di felicità, di beatitudine in questa cura dell’altro che parte dalla parola, dall’onestà e dal perdono.

D’altra parte è una consapevolezza antica, che si trova già nei salmi e che anche san Benedetto ha fatto propria riportandola nella regola: “Chi è l’uomo che desidera la vita e brama vedere giorni felici? Preserva la lingua dal male, le labbra da parole bugiarde. Sta’ lontano dal male e fa il bene, cerca la pace e perseguila” (Sal 33,13-15). Beati sono i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace perché, con la loro astensione dal male e la loro risposta non violenta al male subito, danno vita fin da ora ad una anticipazione, ad un pezzetto di paradiso.

E se questo è l’atteggiamento da avere verso tutti, una cura particolare la richiedono le relazioni con le persone più vicine, più intime e più care. Al termine della sua regola san Benedetto invita i monaci a vivere con cuore casto l’amore fraterno. Per chi ha scelto la vita comune, coltivare relazioni fraterne sincere, senza la ricerca di interessi e tornaconti personali, senza calcoli e favoritismi per creare alleanze interne da sfruttare al momento opportuno, è la condizione per non adulterare lo spirito della vita comune, per non contraffare, falsificare, corrompere l’amore fraterno.

L’amore fraterno e l’amore di coppia sono segni dell’amore di Dio per l’umanità intera e per ogni singola persona; e sono i sogni di Dio per l’intera umanità e perché ogni persona si sappia amata e voluta. Quel cuore casto, richiesto in ogni relazione umana e che si concretizza con l’esercizio a tratti, bisogna riconoscerlo, estremamente esigente della fedeltà e della lealtà, rimanda alla beatitudine dei puri di cuori: beati sono coloro che hanno saputo amare in tal modo, perché hanno anticipato, hanno instaurato già in questo mondo un angolo di regno di Dio, uno squarcio di quello che è l’amore pieno, compiuto.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. È interessante notare come la purezza di cuore sia legata allo sguardo, al vedere. Il primo campanello d’allarme, ci dice il vangelo oggi, per capire che il cuore si sta corrompendo, è uno sguardo che ambisce a possedere, a conquistare qualcosa, qualcuno. Al punto che meglio sarebbe troncare quello sguardo -cavare un occhio-, troncare quella relazione pur di non inquinare quegli amori che già Dio ci ha donato di vivere e che tanto esprimono dell’uomo e di Dio. Ai puri di cuore, a chi ha saputo guardare e considerare ogni persona nella verità in cui sta nella sua vita, è promessa la visione di Dio, è promesso un giorno il centuplo di quell’amore fedele e leale con cui ha saputo amare.

Accettare di guardare il rovescio della medaglia non significa quindi riaffermare il peso opprimente della legge, ma significa scoprire dove si annidano le radici del male per poterne guarire. Indicandoci la via delle beatitudini Gesù ci indica che tutto inizia dal cuore e la disponibilità ad accogliere un cuore nuovo, un cuore puro, è la via per chi desidera la vita e giorni felici.


Fr Amedeo


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