Omelia della domenica IV del T.O. (31/01/2022 - Anno C-)
Il Vangelo di oggi continua la narrazione di domenica
scorsa.
Gesù nella sinagoga di Nazaret inaugura la sua predicazione.
E le sue parole destano stupore, attraggono.
Parole di grazia
uscivano dalla sua bocca. Eppure l’esito di questa predicazione non è dei
migliori.
Gesù, leggendo le parole del profeta Isaia annunciava un
tempo di grazia: la liberazione agli oppressi, la vista ai ciechi, la buona
notizia ai poveri. Un messaggio di speranza che raggiunge i cuori degli
ascoltatori.
Eppure pare strano che dopo questo annuncio di un orizzonte
di vita, ci siano delle parole di provocazione dello stesso Gesù.
“certamente voi mi citerete questo proverbio: medico cura te stesso…
nessun profeta è ben accetto nella sua patria”.
Luca non ci dice necessariamente che lo stupore della folla
fosse uno stupore di incredulità. Mi piace pensare che quella gente, riunita in
sinagoga, fosse anche ben disposta ad ascoltare una parola da un “compaesano”
che a Cafarnao aveva compiuto segni prodigiosi, ascoltatori che credono
possibili miracoli anche nella propria patria. Ma forse quell’annuncio di
speranza, l’interpretazione di quel compimento della pagina del profeta Isaia
rischiava di essere mal compresa. Gli amici e i parenti di Nazaret
probabilmente si aspettavano vantaggi dalla conoscenza di quest’uomo che
comincia a manifestare di avere “poteri” particolari. E forse non dobbiamo
scandalizzarci perché forse scatta anche in noi il pensiero di una vita
facilitata dalla conoscenza di “qualcuno di importante” da cui possiamo trarre
dei vantaggi.
Potremmo immaginare i pensieri che abitavano i cuori di
questa gente: “Perché, se Egli è un
profeta, non può compiere prodigi a nostro vantaggio? Perché non sperare del
bene anche per noi, per il suo clan, per la sua “tribù”?” D’altra parte, a
Cafarnao Gesù aveva mostrato il suo potere di guaritore… sarebbe allora
legittimo pensare che i suoi doni siano messi a servizio dei suoi conterranei,
per di più credenti nello stesso Dio [Cafarnao era considerata “galilea delle
genti”, terra pagana].
Gesù stava annunciando l’irruzione della vita divina nella
vita dell’uomo, ma i suoi interlocutori sembrano rimanere incentrati su loro
stessi, sul loro “stare bene”… cedono alla sottile tentazione di vedere tutto e
tutti funzionali al proprio benessere. Proprio il movimento opposto di quello
che Gesù vorrebbe annunciare, il movimento opposto di quello che risulterebbe
salvifico per l’uomo, perché libera il cuore dell’uomo, lo apre
all’Altro/altro.
Gesù sembra rifuggire e contrastare immediatamente da questa
logica: per avere la vera Vita è necessaria donarla e non fare di tutto per
accaparrarla. E sebbene annuncia la liberazione che Dio compie, questa
liberazione non sempre sembra “comoda”… anzi scomoda, provoca ad uscire fuori
di sé:
chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la troverà (Cfr, Mt 16,25).
Il cuore della salvezza e il vero senso della liberazione è
quello non rimanere rigidi e fermi, ripiegati su di se e concentrati sui propri
bisogni, ma aprirsi alla possibilità di mettersi in cammino [come Gesù alla
fine di questa pagina del Vangelo… in mezzo alla folla irrigidita e bloccata
nel risentimento, Gesù passa in mezzo mettendosi in cammino] osando gesti
scomodi di decentramento da sé per ritrovare il senso della propria vita nella
relazione con Dio e nel dono della propria vita per gli altri.
In fondo è ciò che è stato chiesto alla vedova di Sarepta, e
a Naaman il Siro. Se guardiamo da vicino le vicende che riguardarono le persone
che Gesù porta come esempi, ancor prima che vedere i miracoli di cui essi sono
beneficiari (la vedova vede moltiplicarsi la farina e l’olio e il figlio
risorgere… Naaman riottiene la salute dalla lebbra), ad entrambi viene chiesto
di inoltrarsi in una relazione di fiducia che richiede un dono di sé ed un abbandono
all’altro. Ciò che viene chiesto loro è qualcosa che appare impoverire o
umiliare, piuttosto che arricchire o esaltare. Alla vedova viene richiesto di
donare il poco cibo che le rimane, a Naaman viene domandato di abbandonare la
considerazione della grandezza delle proprie origini e accettare di scendere
nelle umili acque del Giordano.
Detto in altri termini, vi è una Pasqua (o più pasque) che
ciascuno di noi deve attraversare per avere la vita, pasqua che in fondo è un
camminare verso un progressivo decentramento da sé, per aprirsi a Dio e agli
altri, in un dono totale di noi stessi.
Tante nostre predicazioni, tanti nostri discorsi spesso
cancellano dall’orizzonte la dimensione pasquale (di una croce e di una
risurrezione), come se l’annuncio della salvezza fosse un annuncio di un facile
benessere promesso, a poco prezzo.
Siamo chiamati a qualcosa di grande e di bello… ma per
accogliere questi orizzonti grandi ci è chiesto di intraprendere percorsi che
richiedono anche del coraggio… il coraggio dell’abbandono fiducioso in Dio
nell’inoltrarci in strade che a noi sembrano “troppo”.
Papa Francesco mette tanto in guardia tutta la Chiesa,
specialmente i più “addetti al mestiere” dalla tentazione della mondanità
spirituale, di una religiosità che sottilmente, in modo quasi impercettibile,
cancella dal proprio orizzonte la croce (non tanto da intendere con uno sguardo
dolorista ma come espressione del dono di amore) e la dimensione pasquale
dell’essere credente, e ritiene solo le cose che possono essere funzionali a sé
stessi, al proprio bisogno, al proprio benessere. Possiamo vivere la nostra
religiosità nella ricerca di un utile per sé, e/o di una perfezione formale,
nella ricerca di grandi testimonianze edificanti attraverso predicazioni esemplari,
attraverso imprese strabilianti – anche attraverso edificazione di chiese e
monasteri – con il rischio di cadere nella tentazione di ricercare di attirare
uno sguardo su di sé, di compiacersi della propria bella impresa. Ma così tutto
risulterebbe svuotato della carità, ossia di quel movimento di decentramento da
sé perché l’altro viva e perché l’altro esista, il vivere tutto come funzionale
a sé stessi sarebbe alto sperimentando il gusto amaro di chi manca il proprio
bersaglio.
San Paolo ci mette in guardia: ciò che è più grande e ciò
che rimane è la carità, quella di Cristo che ha dato la propria vita per la
salvezza di tutti, mostrandoci la via bella e feconda - sebbene ardua - della
Pasqua.
Certo la predicazione delle “pasque” che ci attendono – e
che per ciascuno assume una fisionomia propria - non è una predicazione che
riscuote successo ed è normale una certa resistenza… Geremia ha sperimentato la
resistenza alla sua predicazione! Ma è in fondo la resistenza che spesso
opponiamo anche noi, quando sembra che il cammino si faccia arduo. Ma al di la
della scorsa ardua e impegnativa di ciò che ci si prospetta davanti, c’è una
vita che attende, una vita che è custodita e che si potrà sperimentare solo
quando il chicco di grano caduto in terra
muore… per portare frutto.
Chiediamo allora al Signore di avere occhi capaci di
cogliere l’orizzonte pasquale di tanti passaggi ardui della nostra vita, senza
scoraggiarci o scandalizzarci delle Pasque che ci attendono e di darci la forza
di riconoscere e fuggire la tentazione di una mondanità spirituale che fa del
“religioso” una menzogna, riducendo tutto a qualcosa funzionale a sé stesso. La
logica della carità che Cristo ha vissuto e annunciato pervada tutta la nostra
vita e spanda attorno a noi il profumo di vita.
P. Emanuele
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