Omelia per la XXVII domenica del Tempo Ordinario (6 ottobre 2024 - Anno B)
“Non è bene che l’uomo sia solo”. Questa frase del Signore al momento della creazione che portata
può avere? Cosa può dirci oggi? Parla solo sotto l’aspetto di coppia o è un discorso che possiamo
allargare? Penso che, se il Signore ha creato l’uomo e la donna perché stiano insieme e vivano una
unione così intensa che la separazione è un fatto grave (grave in sé perché rompe un unione che il
Signore ha preso su di sé – ma poi ci sono tante ragioni che ci fanno astenere dal giudizio dei
complessi casi personali) è una conseguenza del fatto che il Creatore ha voluto la persona umana
aperta alla relazione, ad immagine della Trinità che, nella sua Unità, è una relazione fra tre Persone
che sono Amore. L’uomo e la donna sono animali nati per la relazione, per amare e quindi sono stati
dotati anche di una vita spirituale. L’amore può portarli ad una relazione non solo umana, ma con
Dio stesso. Per questo Lui è entrato in dialogo con noi, è entrato nella nostra vita, al punto da farsi
carne come noi e avere un linguaggio che è il nostro e ci ha parlato di Dio, di sé, di suo Padre e
dello Spirito con povere parole umane ed esempi che possiamo interpretare con facilità.
Dalla lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato un grande principio: “ Gesù fu fatto di poco inferiore agli
angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la
grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”. Cosa ci vuol dire con questa frase? La
morte e la morte in Croce sono la grande epifania dell’amore di Dio per noi. Amando ci si dà e
l’amore non ha confini, ci si dà interamente. L’amore è come un cerchio che si espande nell’acqua
fino a toccarne i confini.
Se amiamo noi stessi in modo giusto, amiamo anche gli altri in ugual modo, perché la relazione
umana giusta giunge all’amore, in una o più delle sue varie sfumature. Per noi l’amore è vitale e
Dio nella sua misericordia ce lo ha indicato: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, la tua
anima, le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”. Questo è il primo e grande comandamento:
non è un articolo del diritto civile o canonico, ma è il vero comandamento, la linea guida che il
Signore ci dà perché noi possiamo riuscire la nostra vita. Gesù per amore è morto “a vantaggio di
tutti”; questa è la misura dell’amore. “Tutto” è la misura dell’amore, perché la nostra chiamata non
pone confini. È davvero troppo, ma se il nostro Creatore ci ha dato questo orizzonte è perché alla
sua creatura tiene come alle pupille dei suoi occhi e ci vuole perfetti non nell’agire, ma nella
tensione verso il bene.
La preghiera dell’inizio di questa Messa ce lo fa dire: “Esaudisci le preghiere
del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare”. Questa è la
grandezza dell’uomo: poter sperare il bene, il buono e il bello al di là di ogni speranza, di ogni
limite umano, al di là di ogni misura. Poter sperare di amare davvero e di essere amati davvero.
L’Incarnazione del Verbo di Dio, dell’Unigenito, del Figlio diletto ci permette di dire queste parole.
La lettera agli Ebrei dice ancora: “Conveniva infatti che Dio ... rendesse perfetto per mezzo delle
sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati
provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”. Ci chiama
fratelli, figli dello stesso Padre, eredi della stessa gloria e la via è il comandamento dell’amore,
quella che sulla terra come nella Trinità è la sua Vita. La relazione con Dio e con i fratelli è ciò che
ci fa essere umani: non sono infatti le grandi imprese, le grandi invenzioni e neanche le grandi
guerre e battaglie che ci rendono più umani, ma il semplice (non così facile!) riflettere nel mondo
l’amore e la comunione che c’è in Dio.
Ciò che non è amore, anche se agli occhi degli uomini sembra una grande cosa, è solo frutto della
durezza del nostro cuore. Esso batte per far sì che il corpo viva, ma se è duro non dà vita veramente
umana, è come il motore di un robot.
Gesù conclude, in Marco, col presentare i bambini come coloro che stanno vivendo la vera vita: in
loro tutto è relazione e bisogno di amore: “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un
bambino, non entrerà in esso”. Il Regno di Dio non è un territorio, che crea avidità, conquiste e
guerre, ma è comunione degli umili, dei poveri. Ai bambini è data la beatitudine riservata ai poveri,
agli umili, ai miti.
Questo Vangelo ci interroga su che cosa facciamo abitare nel nostro cuore.
P. Cesare
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