Omelia per la VI domenica del tempo pasquale - 25 maggio 2025


 


"Non appena ti svegli al mattino, cerca di raccoglierti interiormente e di suscitare in te un sentimento di calore. Questa deve essere considerata la tua situazione normale: non appena essa cambia, puoi essere certo che qualcosa nel tuo intimo non è in ordine. ... Non far nulla che possa distruggerla, significherebbe diventare nemico di te stesso. Datti invece come regola la conservazione del raccoglimento e del calore, restando con il pensiero rivolto a Dio. Questa sola cosa ti indicherà poi ciò che devi fare e ciò che devi fuggire. La preghiera di Gesù è un aiuto potentissimo in questo" .

Queste parole sono il consiglio che un monaco ortodosso russo del secolo scorso dava ad una persona comune che si era rivolta a lui.

Per vari aspetti mi sembra una trascrizione del vangelo di oggi, in un linguaggio forse a noi più vicino, perché si rivolge a un tu, dà una regola di vita che non è certo una costrizione ma un suggerimento per vivere bene; e tocca quegli aspetti dell’interiorità, dei sentimenti, quei desideri di raccoglimento e di intimità che forse sentiamo più nostri, più attuali.

Ma non è lontano da tutto ciò il cuore del vangelo di oggi, quando il Signore dice : “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”; quando insegna che questa pace è il frutto della presenza di Dio in noi e che questa presenza è a sua volta il frutto dell’amore, del nostro desiderio di stare con Dio e di ascoltare la sua Parola. Questa pace poi libera dal turbamento, libera cioè dal dubbio e dall’incertezza, per rendere chiaro, trasparente, non più torbido il pensiero e lo sguardo sulla realtà: insegna appunto ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo fuggire. E ha per frutto la gioia, il rallegrarsi di sapere l’esito buono di una vita vissuta coltivando questo genere di pace.

Gesù ci tiene però a precisare che non è una pace generica, una pace come la può dare il mondo. Perché il più delle volte il meglio della pace che riusciamo a darci è un’assenza di conflitti, con la sottomissione al più forte di turno (ammesso che il più forse si accontenti della sottomissioni e non voglia l’annientamento dell’altro); oppure è una pace che uno poco a poco si costruisce cercando di rimanere distaccato, distante, imperturbabile a ciò che gli accade intorno: una pace che certo, allevia il dolore, ma a prezzo dell’indifferenza e dell'estraneamento dal mondo, dagli altri e dalle loro sofferenze. O ancora è una pace all’insegna del “vivi e lascia vivere”, che è il frutto della rinuncia a desideri grandi, al tendere al bene e al meglio, ad avviare processi, come piaceva dire a papa Francesco: ci si accontenta della routine, ci si accomoda al quieto vivere, ci si assoggetta alle proprie inclinazioni meno nobili, dicendosi che d’altra parte bisogna pur sopravvivere …

Per capire quale genere di pace Gesù vuole donarci, bisogna osservare i gesti e le parole che hanno precedeuto questa promessa: Gesù pronuncia queste parole subito dopo la lavanda dei piedi, nel corso dell’ultima cena, durante la quale istituisce l’Eucaristia, il segno di una vita donata per amore. Queste parole addirittura sono pronunciate subito dopo l’avvio del tradimento di Giuda, quando esce dal cenacolo dopo aver ricevuto il boccone dalle mani del maestro.

È in quel momento che il Signore inizia a spiegare i gesti appena compiuti, all’insegna dell’amore, del servizio, del dono di sé: “Capite quello che ho fatto per voi? ... Se dunque io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi … Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli  altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici ...”. La pace che il Signore ci offre è quella che scaturisce dal dono di sé, che accetta di passare attraverso il male, la croce, credendo fermamente che è solo in questo modo che il male si spegne e la vita trionfa.

Ho trovato molto sincero e onesto un commento di alcuni giorni fa a queste parole del vangelo, che riconosceva il peso e l’esitazione a pronunciarle queste parole. Il commentatore concludeva così: “Gesù chiede ai suoi discepoli di avere gli uni verso gli altri un amore fermo, stabile, che non arretri neppure di fronte al rifiuto e al tradimento. ... Questo è quello che vedo in Gesù. E in me che cosa vedo? Io sono cristiano, per cui faccio discorsi cristiani, parlando di amore a destra e sinistra, senza sapere ciò che dico. Il peso di questo amore non lo voglio proprio conoscere. Trovo normale che le mie appaiano parole vuote. Meno male che il vangelo rimane uno scoglio su cui le mie parole si scontrano”.

Sì, il vangelo rimane uno scoglio contro il quale non rischiamo di romperci soltanto se ci sbattiamo contro con l’onestà e l’umiltà di riconoscerci distanti dall’insegnamento e dall’esempio che Gesù ci ha dato, distanti dall’intensità di amore con cui Lui ha amato.

Ma il vangelo è anche il vento dello Spirito che ci spinge a riprendere il largo, a continuare a crederci, a continuare a sperare, … Perché prima ancora di chiederci di amare, ci mostra quanto Dio ci ha amato, quanto ha amato il mondo, tanto da dare il suo Figlio perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna; il vangelo è la buona notizia di un Dio che non si stanca di cercarci, e noi “cerchiamo Dio non quasi che lo facessimo di nostra iniziativa, ma perché egli ci ha amato e ci ha cercato per primo”. Questa è la nostra forza e la nostra gioia.

fr. Amedeo 

 

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