Omelia per la XXV domenica del Tempo Ordinario (22 settembre 2024 - Anno B)

 



Di fronte alla paura possiamo reagire in tanti modi.

Domenica scorsa, dopo l’annuncio della passione da parte di Gesù, Pietro aveva reagito quasi con aggressività, rimproverando Gesù: “Questo non ti accadrà mai!”. La paura dell’altro, della sofferenza e perfino della morte che può infliggerci, può innescare in noi un sentimento istintivo di rabbia, e farci rispondere anche con la violenza. Dare libero sfogo a questo sentimento non è la via buona, sembrava dirci il Signore, attribuendo a Pietro addirittura il titolo di satana e invitandolo a fare un passo indietro e riprendere il suo posto.

Ma la paura può anche paralizzare, bloccare le nostre facoltà di comprensione, di ascolto e parola: può rendere incapaci di capire, sordi e muti. È il modo con cui sono presentati i discepoli oggi, dinnanzi al secondo annuncio che Gesù fa del suo destino, insieme tragico e glorioso: “Il figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano, avevano paura di interrogarlo … essi tacevano.

Il vangelo d’altra parte ci fa subito vedere che è un silenzio ben distante da quello che deriva da un senso di pace, di accoglienza, di accettazione, di sapere comunque di trovarsi sulla buona via. I discepoli tra loro stanno discutendo di altro, si stanno chiedendo chi tra di loro sia il più grande. Forse avere una posizione di prestigio esime dal doversi trovare di fronte alle prospettive annunciate dal loro maestro; forse essere in una posizione di potere permette di togliere altri da tali prospettive.

L’intera situazione rimanda ad un episodio che l’evangelista Marco racconta pochi versetti prima di quelli che abbiamo appena ascoltato. Gesù è appena sceso dal monte della Trasfigurazione e viene raggiunto da una folla agitata. In mezzo ad essa c’è un ragazzo con convulsioni, i discepoli non hanno potuto fare nulla nei suoi riguardi, mentre Gesù, chiamandolo spirito muto e sordo, libera il ragazzo da questo male e lo ristabilisce. “ … Il fanciullo diventò come morto, ... ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”. Nei termini usati, sembra quasi un anticipo della morte e risurrezione  che dovrà attraversare Gesù stesso.

Anche qui la domanda che i discepoli si fanno è poco pertinente con il messaggio che Gesù voleva dar loro: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”. “Come mai noi non siamo dotati di un tale potere?”. Anziché riconoscere e ringraziare della vittoria del bene sul male, della vita sulla morte da parte del loro maestro, il loro problema è non avere potere, è di essere impotenti.

C’è quindi anche in questo episodio l’incapacità di comprendere, di mettersi in ascolto e dialogo con il Signore per cogliere la buona novella, la novità del messaggio con cui Gesù vorrebbe raggiungerli. Sono anche loro, siamo anche noi tante volte posseduti da uno spirito muto e sordo che ci impedisce di entrare in ascolto di Dio e dei i fratelli, e ci ripiega su noi stessi, sul nostro senso di impotenza, piccolezza, inadeguatezza.

 

In fondo la domanda di chi sia il più grande nasce dal timore di essere insignificanti e senza valore agli occhi degli altri, e dall’umano bisogno di essere considerati, accettati, amati dagli altri; e la risposta più immediata è quella del potere, dell’essere diversi, migliori, di apparire un po’ più alti degli altri, e perfino di se stessi, della propria statura.

E invece Gesù propone due vie alternative per rispondere a questi complessi di superiorità o inferiorità, a questa brama di primeggiare o paura di essere dimenticati.

C’è innanzitutto un cammino di liberazione da compiere, essere liberati dagli spiriti muti e sordi che ci ripiegano su noi stessi. E questa specie di demoni, spiega Gesù, “non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”: vale a dire mettendosi alla presenza di Colui che è il totalmente altro, l’immensamente più alto, scoprendo d’altra parte che questa alterità non schiaccia ma accoglie, non denigra ma ama. La preghiera guarisce mutismo e sordità perché ristabilisce la comunicazione, fa entrare in un ascolto adorante, riapre al dialogo, ristabilisce la comunione. Deve aver fatto esperienza di questo il salmista che pregava così:

“Signore, non si inorgoglisce il mio cuore

e non si leva con superbia il mio sguardo;

non vado in cerca di cose grandi,

superiori alle mie forze.

Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l’anima mia”.

E la seconda via è quella dell’abbassamento e del servizio: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”: di nuovo, non ci sono in queste parole un invito ad annullarsi e ad asservirsi, ma ad amare, perché il vero amore non afferma se stesso a spese dell’altro, ma è disposto a promuovere l’altro a spese di se stesso.

Nella scia di tutta la storia della salvezza, durante la quale più volte Dio ha incoraggiato Israele a non cercare sicurezza, protezione, garanzie con i potenti di turno, ma a confidare in Lui, anche Gesù si presenta oggi ai suoi discepoli con un bambino fra le braccia per invitarci ad affrontare le nostre paure con questo atteggiamento confidente nei suoi confronti e amante verso coloro che ci ha chiamati a servire.


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