Omelia della domenica VI di Pasqua (14/05/2023 - Anno A-)
Nel
vangelo di oggi c’è qualcosa che apparentemente stride con la nostra mentalità
riguardo all’amore. Nel nostro tempo sembra che “amore” e “comandamento” si
oppongano a vicenda. La parola “comandamento” evoca subito una certa
costrizione e mancanza di libertà, mentre abbiamo dell’amore un’idea che
rimanda a gioia, esaltazione, libertà di espressione, e, purtroppo, anche
instabilità e fragilità. Sembra proprio che il comandamento o la legge sia la
tomba dell’amore. Quindi la richiesta di Gesù apparentemente ci sembra
contraddittoria, se non un po’ assurda “se mi amate, osservate i miei
comandamenti” “se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come
io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”. Ma è uno
stridore solo apparente. Se riflettiamo bene, anche dal punto di vista
semplicemente umano “l’amore ha i suoi comandamenti”. Sono comandamenti non
scritti che nascono ad esempio tra un uomo e una donna quando il loro amore è
profondo e vero soprattutto se consacrato nel Matrimonio, che dicono
reciprocità: “Se mi ami davvero non mi tradirai” “Cercherai di rendermi felice”
“non mi nasconderai nulla” “Mi darai il meglio di te stesso, il tuo tempo, la
tua attenzione, e provvederai a me e ai figli che verranno”, “rispetterai la
mia persona e il mio parere, e cercheremo insieme la decisione migliore nelle
piccole e grandi cose”. E quando si ama sul serio a questi comandamenti si
obbedisce volentieri, quando invece diventano un peso o opprimono, vuol dire
che l’amore si è indebolito o sta per finire.
Se questo vale per l’amore umano a maggior
ragione vale per l’amore di cui ci parla Gesù nel Vangelo. Tanto più se teniamo
presente il contesto in cui queste parole sono pronunciate: l’Ultima cena,
nella quale Gesù ha amato i suoi “fino alla fine” lavando loro i piedi e
donandosi a loro nell’Eucaristia, anticipo della sua immolazione totale sulla
croce, e il discorso immediatamente precedente, che abbiamo letto qualche
domenica fa’: Gesù è la vite e i suoi discepoli sono i tralci. L’amore che li
unisce è come la linfa che li alimenta perché portino molto frutto. Allora le
espressioni di Gesù diventano chiare e coerenti. Lui per primo ama come comanda
di essere amato e come insegna ad amare i fratelli: dando la vita per loro:
“non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. E’
questo che trasforma il timore servile in amore reciproco: “non vi chiamo più
servi, ma amici”, e allora amore e obbedienza diventano la stessa cosa, come
nel rapporto di Gesù con il Padre. E tutto questo porta gioia, non oppressione.
La gioia di essere stati scelti da lui per amare e obbedirci reciprocamente
come Lui ama il Padre ed è da lui amato. “Questo vi ho detto perché la mia
gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, la gioia che deriva dall’umiltà
prodotta dalla constatazione che siamo indegni di tanto amore e tuttavia siamo
chiamati a rispondervi imitandolo.
Anche S. Benedetto ci ricorda che al vertice
della scala dell’umiltà l’amore vince il timore e il monaco “corre per la via
dei comandamenti divini, quasi naturalmente, non più spinto dal timore
dell’inferno ma dall’amore di Cristo”. Tutto questo implica però un serio
cammino di conversione, un passaggio vitale attraverso il mistero pasquale. E
in questo cammino abbiamo un altro Consolatore, Colui che Gesù promette subito
dopo l’affermazione che abbiamo sinora commentato. E’ lo Spirito Santo che ora
ci guida in questo cammino di conversione dal timore all’amore, che rende il
giogo dei comandamenti di Gesù soave e leggero, che ci inserisce in una
comunione strettissima e vitale “in Gesù” e , attraverso di Lui, con il Padre: “Non
vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà
più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi
saprete che io sono nel Padre e voi in me, e io in voi. Chi accoglie i miei
comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e
anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Notate l’insistenza della
preposizioni “in” o “nel”, con le quali Giovanni proclama questa intima unione
dei suoi con le persone della Santissima Trinità, ciascuna della quali agisce
in ciascuno di essi nel suo modo caratteristico. Lo Spirito ci “innesta” in
Cristo e ci conforma a Lui sostenendoci e consolandoci anche nelle persecuzioni
e nella difficoltà del cammino; Cristo ci costruisce come figli in Lui, che è
“il Figlio”, e il Padre ci dona in Gesù la sua vita eterna, il suo amore e la
sua misericordiosa tenerezza, vedendo in ciascuno di noi formarsi l’immagine e
la persona del Suo Figlio diletto.
E’ suggestivo vedere queste frasi
proiettate nell’atteggiamento umile e obbediente di Maria alla volontà di Dio e
all’azione dello Spirito Santo: Maria ha veramente ospitato nel suo grembo il
Verbo Divino nel mistero dell’Incarnazione, si è lasciata completamente
plasmare obbedendo per amore ai comandamenti divini e divenendo modello per
tutta la Chiesa e per ogni singolo credente di come si ama obbedendo ai
comandamenti e ricevendo lo Spirito Santo due volte, all’Annunciazione e alla
Pentecoste è diventata prima la Madre del Capo, e poi la Madre del Corpo
mistico di Cristo, la madre di tutti coloro che vivono “in Lui”.
Forse questo è il significato più bello di
quella frase di Gesù, che vale per tutti noi: “Chi è mia Madre, e chi sono i
miei fratelli? Colui che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica questi
è per me fratello, sorella e Madre”.
Fr
Gabriele
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