Omelia della domenica XXVII del T.O. (02/10/2022 -Anno C-)


 C’è un capitolo verso la fine della regola di san Benedetto che tratta delle situazioni in cui il monaco si trova di fronte ad un ordine che ritiene troppo difficile o impossibile da assolvere. 

Dopo aver indicato lo stile mansueto e umile con cui accogliere una tale richiesta e manifestare le impossibilità ad eseguirla, Benedetto conclude che se il superiore rimane fermo nella sua decisione, il fratello deve essere certo che così è bene per lui e, per amore, obbedire, confidando dell’aiuto di Dio. In questo modo Benedetto eleva una questione di obbedienza al piano della fede. In fondo invita quel monaco a fare un atto di fede nell’accogliere quell’ordine, lo invita a credere che quel comando è per lui utile, e insieme che può confidare nel sostegno di Dio per realizzare quella cosa che a lui pare al limite delle sue possibilità.

In genere siamo abituati a guardare la fede da questo punto di vista, da quello di colui che si trova a dover obbedire a qualcuno che sta al di sopra e che ha il compito di dirigerlo, o che è chiamato ad accettare gli eventi che la vita gli riserva. A volte questa fiducia si rivelerà ben riposta, riuscendo a realizzare cose che non avremmo immaginato esserne capaci; altre volte potremo anche rimanerne delusi e dubitare della bontà del fidarsi.

Ma il vangelo di oggi ribalta la prospettiva: chi deve avere fede non è colui che obbedisce, ma colui che comanda. Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

Il linguaggio che Gesù usa è paradossale: una quantità irrisoria di fede, delle dimensioni di un granello di senape, che Gesù altrove dice di essere il più piccolo dei semi, ha la potenza di sradicare un gelso e ripiantarlo nel mare. Ricordo ancora il racconto che un signore tanti anni fa mi aveva fatto: per arrotondare il guadagno dall’abbattimento di alcuni gelsi che gli erano stati affidati, aveva anche estirpato a colpi di piccone le ceppaie e le radici di quei grossi e tozzi alberi, per avere gratuitamente, per modo di dire, altra legna da ardere in casa. Per quanto riguarda poi il re-impianto in mare, ammesso pure che si tratti del lago di Tiberiade e quindi di acqua dolce, la stranezza e la straordinarietà del fatto rimane. ... 

Ma è la straordinarietà di entrare in questa logica di fede: credere che la vita e il mondo ci sono stati affidati e che ci è stato dato il potere di orientarne il corso.

Ma in quale modo? La seconda parte del vangelo viene subito a indicare lo stile con cui esercitare questo potere. È lo stile del servitore che sa che quanto può fare è dono ricevuto, non si arroga la proprietà di quel dono: il potere allora diventa servizio, i doni ricevuti sono impiegati per la ricerca del bene dell’altro, del bene comune.

La bellezza del messaggio del vangelo di oggi è che la fede non ci è donata per “subire” la vita, per accettarne le contrarietà, per sopportarne il peso, per portarne le sofferenze, in attesa di essere sradicati e trapiantati in un luogo migliore. No, la fede ci è data innanzitutto per “agire” nella vita, è quella forza che consente di buttarsi nell’avventura della vita nella certezza che il Signore è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Nella seconda lettura san Paolo ricorda a Timoteo che quello che ha ricevuto da Dio non è uno spirito di timidezza, ma di forza, carità e prudenza, e che non deve vergognarsi di dare testimonianza al Signore. La fede è una forza che si traduce in carità, perché scaturisce dalla carità di Dio per noi; la fede è credere all’amore che Dio ha per noi.

Diventa allora chiara la richiesta dei discepoli al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Abbiamo bisogno di un aumento costante di fede, cioè di conoscenza dell'amore di Dio per noi, in modo da poter impiegare i nostri doni non per dominare sugli altri ma per servire, per così dire, in gratuità, al modo di quell’uomo che sradicava gelsi per riscaldare i suoi cari.


Fr Amedeo

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