Omelia della domenica XVI del T. O. ( 18/07/2021 - ANNO B -)
S.
Marco, oggi, con la sua consueta sobrietà, ci presenta una scena molto efficace
per farci riflettere, soprattutto in questo tempo di vacanza durante la
pandemia, che sembra voler riprendere la sua devastazione. “Venite in disparte
e riposatevi un po’”. E’ la tenerezza del Buon Pastore per il suo piccolo
gregge, stanno faticando insieme e non hanno più nemmeno il tempo di mangiare …
questo ci dice tante cose: l’attenzione di Gesù per i suoi, il desiderio di un
momento prolungato di riposo e di intimità, ma anche la sete delle folle, il
bisogno che hanno di Gesù, della sua presenza guaritrice, della sua Parola,
della liberazione dal male in tutte le sue forme, una salvezza che sembra sgorgare
dalla sua persona e persino dai suoi vestiti (ricordiamo l’episodio
dell’Emorroissa): lo cercano in modo affannoso, come disperati che stanno
annegando e hanno scorto in lui una tavola cui potersi appoggiare e una
sicurezza che la vita ha fatto loro perdere, o quantomeno vacillare. Ciascuno
di noi ha sperimentato questi momenti di disorientamento, e ha cercato
sicurezza in una persona solida, matura, capace di comprendere e di voler bene.
Invano Gesù e gli apostoli salgono su una barca e si recano in un luogo in
disparte, la folla intuisce, corre precede, e il piccolo gregge di Gesù si
trova di nuovo immerso nella medesima situazione, dalla quale avevano cercato
invano un po’ di respiro e di sollievo. Invece di lamentarsi e bofonchiare
contro la folla invadente, Gesù sente
compassione e si commuove: sono come pecore senza pastore, e allora mette da
parte il bisogno di riposo e di intimità con i suoi discepoli per aprire se
stesso e loro a un gregge più grande. Il piccolo recinto degli apostoli si apre
a dismisura accogliendo un gregge più grande: l’Amore non va in vacanza! E’ il
modo di fare di Dio, pastore del suo popolo, come abbiamo sentito nella prima
lettura: “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni
dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno
feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno
pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi: di esse non ne
mancherà neppure una”.
Per noi monaci è esperienza quotidiana, fin
dalle origini, questo paradosso: la nostra vocazione ci spinge in luoghi
solitari per cercare Dio e vivere il più possibile in una costante intimità con
Dio … ma la gente ci viene a cercare, sempre più numerosa, e non si arresta
nemmeno di fronte alle restrizioni della pandemia. Anche il primo monaco
famosa, S. Antonio Abate, dovette cambiare tre volte il luogo che aveva scelto
nel deserto perché tutti quelli che andavano a lui erano diventati troppo
numerosi. Certo, noi abbiamo una Regola che viene da lunghi anno di tradizione
ed esperienza e che ci invita a essere una comunità centrata su Cristo, che
vive di preghiera e di lavoro, ma aperta a chiunque venga da noi per cercare
Dio, o anche per trovare se stessi o guarire da qualche infermità spirituale. E
questa regola è molto saggia nelle sue disposizioni riguardo all’ospitalità, ci
invita a essere una comunità fervente ma anche accogliente, che vive certo in
un recinto chiuso e con la chiave per aprirlo rivolta all’interno dello stesso,
e non all’esterno … però capace di aprire a chi bussa e attenta ai bisogni di
tutti, una comunità che si fa carico delle gioie e delle speranze, e anche
delle sofferenze delle persone che anche oggi sono stanche e sfinite come
pecore senza pastore. E’ molto chiaro nella Regola che noi dobbiamo educarci a
vedere Cristo dappertutto: non solo nell’Ufficio Divino e nella Sacra
scrittura, ma anche nell’Abate, nel fratello soprattutto se debole e malato,
nel lavoro, gli strumenti del quale vanno trattati come i vasi sacri
dell’altare, e in chiunque bussa alla porta del monastero, che S. Benedetto ci
insegna ad accogliere come Cristo stesso, e a servire come Cristo nell’ultima
cena ha servito i suoi discepoli, non solo con la lavanda dei piedi, ma anche
donando se stesso come pane di vita eterna e calice di eterna salvezza. E
questo ci riporta all’insegnamento di S. Paolo nella seconda lettura. Il fatto
che Gesù e gli Apostoli abbiano sacrificato la loro sospirata vacanza a favore
di tutti è in linea con la donazione totale di Cristo nel suo mistero Pasquale
di morte e di risurrezione che abolisce ogni barriera e ogni “Recinto” perché
tutti trovino in Lui la salvezza. “Fratelli – ci dice – ora in Cristo
Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini grazie al sangue
di Cristo. Egli infatti è la nostra pace (Egli, non un luogo privilegiato
dove pochi eletti stanno intimisticamente chiusi intorno al Lui escludendo gli
altri) – colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di
separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia (S. Paolo qui si riferisce
al muro che nel Tempio di Gerusalemme separava la parte in cui tutti potevano
entrare alla parte riservata ai soli figli di Israele, muro che recava scritte
minacce di morte per chiunque lo avesse varcato) … e per riconciliare tutti e due con Dio
in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso
l’inimicizia”.
Questo è un ottimo programma di vita per
noi monaci, soprattutto in questo tempo di disorientamento per molti : custodire
l’intimità con Cristo e nella comunità cui ci siamo legati stabilmente, e nello
stesso tempo essere accoglienti verso chi soffre in qualsiasi modo, con
equilibrio, perché l’apertura sregolata non snaturi la nostra vita monastica,
né una chiusura eccessiva del nostro recinto ci faccia ripiegare su noi stessi
in una falsa quanto illusoria intimità esclusiva con Dio e tra di noi. Forse
questo è il nostro modo di essere “Chiesa in uscita”, perché fedele alla
millenaria tradizione monastica. Ma è
anche un invito ad ogni credente, perché sia costantemente unito a Cristo e
effondendo poi sul prossimo la pienezza di carità che ne deriva, senza mai
svuotarsi o snaturarsi. S. Bernardo diceva questo ai monaci invitandoli a
essere come conche che si riempiono alla fonte dell’amore di Dio per poi farlo
traboccare per eccesso su tutti e su tutto. E si capisce alla luce di questo il
suo insegnamento a Papa Eugenio III: “Dedicati al tuo gregge con tutte le tue
forze, ma senza trascurare te stesso e il tuo rapporto con Dio”. E se questo lo
deve fare un papa, o un monaco, penso sia un’ottima proposta per ogni
cristiano.
Fr Gabriele
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