Omelia Domenica 2 Febbraio 2020, Presentazione di Gesù al Tempio


Quando furono compiuti i giorni …

Che differenza c’è tra finire un lavoro, un’opera, dei giorni, o compiere un lavoro, un’opera, dei giorni?
Penso ci sia quella differenza che percepiamo la sera quando, coricandoci, borbottiamo in noi stessi: “Beh, almeno anche questa giornata è finita”, oppure sentiamo la gioia, insieme alla stanchezza, di aver compiuto, realizzato qualcosa di bello in quel giorno. La percezione che quel tempo trascorso non è andato perduto, non si è consumato come una candela di cui non rimane nulla, ma che quel tempo si è riempito, a acquisito un senso, una pienezza, è giunto a compimento.
Per questo la preghiera con cui la chiesa ci insegna a concludere la giornata è chiamata proprio “Compieta”, vale a dire compiuta, realizzata. Quella giornata, pur riconoscendone le inadempienze, le mancanze, i vuoti di cui sono stato più o meno responsabile, la presentiamo davanti al Signore perché ne faccia un’opera compiuta; affinché non siano ventiquattro irrilevanti ore che con insignificanza vanno verso la fine, ma perché sia un tempo che va verso il compimento di un fine, di un senso, di un obiettivo.
A “Compieta” spesso si recita la preghiera che oggi Simeone pronuncia nel Tempio:
“Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”.
Desideriamo, ci impegniamo per compiere le nostre giornate, nella speranza di poter vedere che giorno dopo giorno la nostra intera vita va verso un compimento. E tuttavia spesso la realtà sembra smentire questo progresso verso un compimento: è più facile contare le imprese fallite, le occasioni mancate, le relazioni sfasciate che le realizzazioni della nostra vita e di chi ci sta intorno.
Cos’è allora che ha fatto pronunciare a Simeone questa esclamazione di pienezza, tanto da ritenersi sazio di giorni e soddisfatto, appagato di quanto ricevuto in questa vita?
Di Simeone non si dice l’età, ma tanto giovane non dev’essere stato, se riconosce che i suoi giorni possono ormai ritenersi compiuti. Di lui si dice invece che aspettava la consolazione di Israele, che la morte non sarebbe comunque giunta prima di aver visto il Messia. Simeone è allora l’uomo dell’attesa; così come la profetessa Anna, di ottantaquattro anni, di cui gli ultimi sessanta vissuti come vedova, che è il simbolo dell’incompiutezza umana, di un’intera vita vissuta nella mancanza dell’altra metà per darle pienezza.
Insieme sembrano indicare l’antichissima attesa dell’umanità, attesa di consolazione, di redenzione, di completezza, di pace. Ma la loro è un’attesa fiduciosa, fatta di una fedeltà al vivere quotidiano, le cui giornate e le cui vite tendono al compimento non per la realizzazione di grandi imprese, né per il raggiungimento di un buon stato sociale, per aver trovato una buona sistemazione. Ciò che orienta al compimento la vita di Simeone è la tensione con cui ha continuato a vivere da uomo giusto e misericordioso, senza cedere alla tentazione delle facili realizzazioni, che danno solo un’apparenza di pienezza, ma lasciano ben presto un senso di vuoto. Ciò che orienta al compimento la vita di Anna è il desiderio con cui, pur nella sua mancata realizzazione di un amore umano, ha tuttavia fatto della sua intera vita -giorno e notte, ci dice il vangelo-, un atto di amore nel servizio di Dio.
Fino a ché nel tempio il Signore si presenta, e Simeone lo accoglie tra le sue braccia. Non è Simeone che ha realizzato la propria vita, ma è quel Bambino che ha compiuto la vita dell’anziano. Simeone significa “Dio ha ascoltato”: ha ascoltato l’attesa, il desiderio di pienezza di quell’uomo, e l’ha compiuta mettendosi nelle sue braccia, lasciandosi abbracciare.
Anche ora il Signore si sta per mettere nelle nostre mani. Con il dono di sé, la consegna della sua vita nell’eucaristia, che è il compimento della sua vita d’amore e che sola può portare a compimento le nostre vite.
Con questo dono di sé da parte del Signore non siamo più sotto l’incubo del fallimento, dell’insuccesso, perché siamo stato resi liberi, la seconda lettura ci diceva che siamo stati liberati dalla paura della morte che tiene schiavi per tutta la vita.
Allora, presentare le nostre giornate, la nostra vita, il nostro lavoro, le nostre opere a Dio, oggi come allora, non significa sacrificarli, dover privarsene in nome di un debito, di un pegno che dobbiamo a Dio. Ma significa riconoscere che Dio è la sorgente del nostro tempo, della nostra vita, delle nostre opere; e che è solo presentandoli, consegnandoli a Dio che possono realizzarsi pienamente, essere fino in fondo quel che sono, ricevere quella compiutezza che ci fa davvero liberi.
Fr Amedeo

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