Omelia della Domenica (28 Ottobre 2018, XXX Domenica TO Anno B)
Sarebbe
interessante fermarci un attimo per chiederci che cosa risponderemmo ad una
persona importante che ci dicesse:
“Che
cosa vuoi che io faccia per te?”; “Cosa
desideri particolarmente in questo momento?”
È una domanda
ricorrente nel vangelo, che Gesù rivolge spesso ai suoi interlocutori.
C’è chi gli aveva
chiesto giustizia, per una giusta ripartizione delle ricchezze: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me
l’eredità”. Ma Gesù aveva risposto che non era stato costituito
giudice tra gli uomini (cfr Lc 12,13-15).
Domenica scorsa,
di fronte alla stessa domanda, Giacomo e Giovanni avevano chiesto di poter
sedere uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù nel suo Regno. Di poter
avere un posto di onore, una posizione di riguardo, magari non per motivi di
vanagloria, ma perché avevano capito che non c’è nulla di preferibile che stare
accanto al Signore. Eppure anche a loro Gesù aveva dato una risposta negativa: “Voi non sapete quello che chiedete” (Lc
10,35-45).
E oggi di nuovo
questa domanda al cieco Bartimeo: “Che cosa vuoi
che io faccia per te?” “Rabbuni, che
io veda di nuovo”. A questa richiesta Gesù non si tira
indietro, non fa resistenza; anzi, con la sua risposta “Va’,
la tua fede ti ha salvato”, dichiara che è la richiesta
giusta, il giusto modo di porsi davanti a Dio.
È interessante
osservare dove si trova questo brano all’interno del vangelo di Marco. A questo
racconto segue immediatamente quello dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, la
domenica delle palme. Siamo cioè al termine di quel cammino di sequela e di
catechesi che Gesù ha fatto compiere ai discepoli nel corso dei suoi tre anni
di vita pubblica. Il vangelo di oggi potrebbe essere considerato una sintesi
del giusto modo di intendere la fede, del modo di intendere il nostro rapporto
con il Signore.
In questi suoi tre
anni di annuncio del Regno, Gesù ha voluto correggere tante false immagini di
Dio che spesso ci costruiamo. E scopriamo che quello che ci offre innanzitutto
non è la giustizia e la ricchezza su questa terra; non è venuto neppure per darci
dei posti di onore, dei privilegi particolari. Il suo agire in noi, se lo
vogliamo, è un agire dall’interno, nel cuore dell’uomo: quello che ci offre è
la guarigione dalle nostre cecità, perché possiamo vedere veramente.
Ma di quali
cecità soffriamo? È difficile capirlo da se stessi, dal momento che il problema
della cecità è appunto che non ci permette di vedere; perché se vedessimo non
saremmo ciechi. In altre parole, possiamo percepire che manchiamo di qualcosa,
ma è molto più difficile capire di che cosa si tratta. Attraversiamo tratti
della nostra vita arrancando nel buio alla ricerca di risposte alle nostre
inquietudini, al “per che cosa stiamo vivendo”, cercando di soddisfare quelli
che ci sembrano i nostri desideri vitali.
Tutto il cammino
del vangelo, sembra suggerirci il brano di oggi, tutto il nostro cammino di
fede è un’educazione del desiderio, per imparare che cosa chiedere. E questo
cammino, osservando il percorso di Bartimeo, inizia con il riconoscimento della
propria miseria, della propria povertà e di un vuoto che non vanno però
guardati negativamente, perché sono le condizioni per uscire da se stessi e
aprirsi alla relazione con l’Altro, con Dio. Da questo riconoscimento nasce l’invocazione
di misericordia - “Figlio di Davide, Gesù, abbi
pietà di me” -, che è invocazione di salvezza, dal momento che il
nome di Gesù vuol proprio dire “Dio salva”. E questo cammino si compie con
l’acquisizione, con il dono della vista e la possibilità di seguire il Signore,
a ciascuno nel modo proprio a lui.
I tempi di
guarigione dalle nostre cecità non possiamo stabilirli noi. Il vangelo di oggi
sembra fare un accenno anche a questo. Si dice che Gesù giunge a Gerico, e
subito dopo che se ne sta andando. Non si dice nulla di quanto tempo ha
trascorso in città, dell’accoglienza e degli incontri che ha avuto, degli
eventuali insegnamenti o miracoli che ha fatto. Solo sul punto di andarsene,
quasi per caso, c’è questo cieco che si accorge del suo passaggio e invoca
pietà. Come a dire che non è mai troppo tardi per accorgerci del passaggio
vivificante del Signore; anzi, che forse ci accorgiamo veramente della sua
presenza solo nei momenti cruciali, estremi della nostra vita.
Qualche giorno fa
sono andato a trovare un’amica monaca, gravemente ammalata. Ad un certo punto
mi ha chiesto di dirle una parola, ma lì sul momento non ho saputo dirle nulla.
È stato solo al momento di salutarla che le ho detto pressappoco così. Che
aveva trascorso una vita esercitandosi a consegnarla nelle piccole cose di ogni
giorno: nell’accettazione dei fatti che ci accadono, nelle piccole obbedienze
che ci sono chieste, nella fedeltà agli impegni che ci siamo presi,
nell’accoglienza delle piccole umiliazioni che la vita ci riserva. E che ora
era giunto il momento della vera e grande consegna della vita, e che poteva
ormai consegnarla pienamente, con fiducia.
La mattina dopo,
mi ha raccontato più tardi una sua sorella, in un momento di coscienza ha
iniziato spontaneamente a recitare il salmo 135: “Lodate
il Signore perché è buono, eterna è la sua misericordia; lodate il Dio degli
dei, eterna è la sua misericordia; lodate il Signore dei Signori, eterna è la
sua misericordia”. E man mano le sue sorelle proseguivano la
recita del salmo, lei rispondeva “eterna è la sua misericordia”. Devono
essere state tra le sue ultime parole.
Proprio mentre le
si chiudevano gli occhi sul mondo, aveva ottenuto anche lei, insieme a Bartimeo,
il prezioso dono della vista. Per poter vedere che il Signore è buono, e che
eterna è la sua misericordia.
Fr Amedeo
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