Omelia per la XVIII domenica del Tempo Ordinario (12 ottobre 2025 - Anno C)




I testi della liturgia di oggi ci conducono a riflettere sul nostro modo di concepire la nostra fede, il nostro modo di ragionare e di vedere il nostro seguire Gesù. Anche oggi, infatti, Gesù ci si presenta come segno di contraddizione. Vuole farci capire non tanto cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci, ma quanto il nostro credere in Lui sconvolge il mondo. Per dirlo in modo più semplice: porta la Salvezza a un modo che continua, nonostante la fede, la generosità, la carità dei discepoli del Signore e l’incessante misericordia che la Trinità versa sul mondo, a perdersi nel deserto pieno di miraggi devianti. Nel Verbo Incarnato Dio è venuto in questo deserto cercando l’uomo e l’ha incontrato, e l’ha salvato prendendo su di sé tutto l’orrore del peccato, del rifiuto dell’essere sua immagine, della vocazione alla Vita divina che ci è offerta: questa è la vera lebbra dell’uomo. Il Signore è venuto a salvarci e ci ha incontrati, e continua a incontrarci e non passa oltre senza vederci e ascoltare il nostro grido. Il suo orecchio è sempre attento e il suo cuore sempre sensibile, perché pieno di pietà e compassione. Eppure a volte non capiamo ciò che vuole dirci. Nel suo incontro di oggi, per esempio, per guarirci ci invita a seguire la Legge: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Toccava a loro, infatti, constatare la guarigione e riammettere nel consorzio umano chi era stato messo al bando a causa della lebbra. Gesù ha chiesto un atto di fede: pur non guarendoli immediatamente li ha invitati a far riconoscere la guarigione dalle persone competenti. Senza insistere i dieci lebbrosi hanno obbedito. E sono guariti nel cammino. L’atto di obbedienza li ha liberati. C’era un decimo lebbroso, un samaritano, considerato straniero, quindi persona di poco conto, che invece di andare dai sacerdoti è tornato da Gesù per ringraziarlo. E Gesù nota il fatto che solo lui, uno su dieci, lo straniero, è tornato a rendere gloria a Dio. Era l’unico non tenuto dalla Legge a presentarsi ai sacerdoti, ma Gesù ci vuole dire altro. A cosa serve la Legge? A far funzionare bene la società, a tenere in ordine e in pace il popolo? O a ricondurre i cuori dei fedeli a riconoscere la santità di Dio e la santità della vita che conduce tutto verso l’Unico che deve essere amato con tutto il cuore, l’anima, l’intelligenza o le forze? Il Samaritano è tornato per rendere grazie e in greco questo suona : per fare eucaristia. L’essenziale è ricondurre tutto a Dio in modo che Dio sia tutto in tutti. Anche la salute, anche l’ordine del popolo, anche la compassione, tutto è per far ritornare tutta la creazione al Creatore, in modo che tutto canti la gloria di Dio, che è la vita dell’uomo. L’uomo ha sottratto la creazione al Creatore, sottraendo se stesso e solo con l’Eucaristia riconduce tutto alla Vita, al Creatore, alla Sorgente della vita e della beatitudine. Nostro compito, in quanto battezzati in Cristo e Tempio dello Spirito Santo, è far sì che tutta la creazione lodi il Signore. La Consacrazione del Pane e del Vino che diventano Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, comincia con l’inno di lode: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo, a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore”. Con l’azione di grazie noi cominciamo a far ritornare il mondo ad essere “luogo di Dio” e non più cosa staccata che gira per conto suo, senza scopo e senza vita. Può farci sorridere l’atteggiamento di Naaman, il generale Siro, guarito dalla lebbra che chiede il permesso di portare con sé della terra dal paese del profeta che l’ha guarito: “Sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”. La presenza del profeta era segno della presenza del Dio che guarisce: quella terra era dunque ormai santificata e portatrice della presenza salvifica di Dio. Offrire un sacrificio su quel mucchietto di terra voleva per lui dire stare alla presenza di quel Dio che l’aveva salvato da una terribile sorte. Viviamo su una terra santa, perché in essa si adora il Signore e il nostro compito è rendere a Dio ciò che è di Dio, la terra che ci ha dato e che porta frutti per noi. Tutto è preso dal Verbo Incarnato e la nostra vita è legata alla sua, anche se, come Paolo, si è incatenati dalle potenze avverse del mondo. Tutto nell’Eucaristia, nel rendere grazie, nel rendere a Dio ciò che è di Dio, diventa comunione con il Salvatore: “Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. Alla fine, nonostante la nostra fragilità, la potenza fedele del nostro Dio e Padre mostrerà la sua fedeltà e questo è l’oggetto della nostra speranza.

p. Cesare

Commenti

Post più popolari