Omelia della domenica XIX del T.O. (07/08/2022 -Anno C-)

 


Parlare della Pasqua nel cuore dell’estate sembra fuori luogo, eppure le letture di oggi ci riportano a quell’evento centrale per la vita del popolo di Israele e per la Chiesa, popolo di Dio, essendo allo stesso tempo il momento fondativo, l’origine della nostra storia, e insieme l’orizzonte, il traguardo del suo compimento.

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, dice infatti che la notte della liberazione, l’uscita dall’Egitto da parte del popolo di Israele guidato da Mosè, era stata preannunciata per infondere coraggio al popolo oppresso dalla schiavitù. La sua annuale celebrazione rievoca quella liberazione originaria per rinnovare, risvegliare la fiducia che ancora oggi può ripetersi quel miracolo della salvezza: come allora, infatti, ancora oggi rimaniamo in attesa della salvezza, per riprendere le parole del testo.

Si parla di liberazione, di salvezza ... oggi useremmo piuttosto le parole guarigione, benessere. Una volta purificate dal rischio dell’individualismo, rimandano anch’esse al riconoscimento di un malessere, di una malattia -del corpo o dell’anima- da cui aneliamo essere liberati, guariti. Può essere allora utile mettersi in ascolto della parola di Dio per vedere come allora il popolo si era disposto a tale evento salvifico, per cogliere aspetti e suggerimenti per la nostra ricerca e il nostro cammino di liberazione.

- Innanzitutto non si parla di un individuo, di un singolo, ma di una comunità, di un popolo: non ci si salva da soli, ma ci si salva insieme, senza lasciare indietro nessuno. La cosa ci appare evidente osservando la necessità di una mobilitazione globale, di un impegno collettivo, ad esempio nei confronti del rispetto della natura e del clima; ma nello stesso tempo ci svela anche le nostre paure ed resistenze a condividere, a mettere in comune le nostre ricchezze e sicurezze individuali.

- C’è poi il riconoscimento del bisogno di un tempo di attesa, di gestazione di questa liberazione: “il popolo era in attesa della salvezza”; è difficile rimanere in questa sospensione e indefinitezza, senza poter vedere l’immediata soluzione del problema, sia esso personale o collettivo, accettare uno stato di precarietà, provvisorietà. Eppure l’attesa svela l’autenticità ed educa i nostri desideri, la nostra disponibilità a dedicarci, a spenderci e sacrificarci per la loro realizzazione. La seconda lettura ci parla di Abramo e dei padri nella fede che hanno accettato di rimanere stranieri e pellegrini sulla terra -pur avendo la possibilità di darsi una dimora e una patria-, nell’attesa del compimento di una promessa che oltrepassava le loro capacità di attuarla.

- E questo ci porta a un ulteriore aspetto del cammino di liberazione così come la fede lo intende: il riconoscimento del bisogno di un Altro, di un Terzo, che intervenga a liberare l’oppresso dall’oppressore, la vittima dal carnefice, l’uomo dalla sua debolezza e peccato. La lotta spirituale, quel cammino di libertà che tutti siamo chiamati a compiere perché nasca in noi l’uomo nuovo, non va inteso come uno sforzo personale che da sé conduce alla meta, ma è piuttosto da intendere come una preparazione del terreno affinché Dio possa venire a compiere la sua opera in noi. Opera che probabilmente non corrisponderà all’immagine che che ci eravamo fatti e che avremmo desiderato di noi stessi, ma che comunque entra in quel movimento di libertà che ci spoglia anche della pretesa di una certa immagine di noi stessi per lasciarci plasmare da Dio.

- Un ultimo aspetto che colgo dalla prima lettura è quello della celebrazione, il far memoria di una libertà, di una salvezza ricevuta all’origine. Questo far memoria non è puramente rievocare un evento passato per infondere coraggio, festeggiare un anniversario per non dimenticare, ma è rendere questo evento nuovamente presente, credere che se Dio ha potuto e voluto liberare allora, può e vuole liberare anche oggi. È il senso dell’eucaristia che stiamo celebrando, memoria della salvezza che ci è stata data con la morte e risurrezione del Signore, e insieme partecipazione ora a quell’evento attraverso la condivisione e la comunione al suo Corpo, nell’attesa del compimento di questa salvezza con il suo ritorno.

E allora diventa può chiaro anche il senso del vangelo, con questo invito all’attesa, alla vigilanza, al tenersi pronti perché, nell’ora in cui non si immagina, viene il Figlio dell’uomo. Il modo in cui siamo invitati a disporci, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese, rimandano l’uscita di Israele dall’Egitto la notte di Pasqua, la notte della liberazione. Queste venute imprevedibili di Dio nella nostra vita possono essere intese come l’irruzione di un ladro che viene a rubarci qualcosa o come l’arrivo tanto atteso di una persona cara; l’incontro di un giudice intransigente o di un padre misericordioso; l’ultima sua venuta può essere guardata come la fine, inevitabile, della nostra vita o come il fine, desiderato, della nostra vita.


Dalle ultime parole del Vangelo, ciò che sembra fare la differenza nella nostra vita, tra l’esito di una disfatta o di una realizzazione, è il modo con cui ci rapportiamo con gli altri, potendoci porre come amministratori buoni, indifferenti, o spietati: beato quel servo -dice il Signore- che il padrone, arrivando, troverà vigile e in un atteggiamento di cura dei suoi fratelli.

Beato chi sa fare della propria vita un desiderio di incontro con Dio e con i fratelli: perché là dov’è il nostro tesoro, la sarà anche in nostro cuore.

Fr Amedeo

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