Omelia IV Domenica di Quaresima (27/03/2022 - Anno C-)
La quarta domenica di
Quaresima che celebriamo oggi, è segnata dall’invito alla gioia, per la Pasqua
ormai vicina, verso la quale, abbiamo pregato all’inizio, affrettarci con fede
viva e generoso impegno.
La gioia è un sentimento
(?) che in primo luogo associamo a un qualcosa che ha aumentato, è venuto ad
aggiungersi alla nostra condizione precedente: una nuova amicizia, il
conseguimento di un risultato dopo un lungo lavoro, la vittoria in una
competizione, un meritato successo al seguito di un serio impegno per
giungervi.
Ma esiste tutta
un’altra serie di situazioni, in cui la gioia è la conseguenza di un ritorno
alla normalità, all’ordinarietà, dopo un tempo in cui si è sperimentato la
prova, la malattia, la privazione: è quella gioia che nasce dal riassaporare la
bellezza di tante cose che altrimenti rischiamo di dare per scontate, e di cui
invece ne riscopriamo il valore quando facciamo esperienza della loro assenza.
È la gioia di un pastore che ritrova la sua pecora smarrita, quella di una
donna che ritrova una moneta perduta, la gioia di un padre che può
riabbracciare un figlio che ormai aveva dato per morto. È la gioia che può
nascere dal ritorno alla pace e alla libertà dei popoli in conflitto, pensiamo
in particolare in questi giorni all’Ucraina e alla Russia, gioia che auguriamo
possano gustare quanto prima e per la quale continuiamo a pregare.
Anche il popolo di
Israele, ci racconta la prima lettura, è raggiunto da una simile gioia.
L’ingresso nella terra promessa è segnata da questa affermazione da parte del
Signore: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto”, vale a
dire, oggi non siete più schiavi e oppressi, oggi riacquistate la
libertà e la dignità per le quali siete stati creati.
Se questa ritrovata libertà
è sul momento motivo di gioia grande, non è scontato conservare nel tempo,
nella vita quotidiana questo sentimento di gratitudine, questa consapevolezza
di disporre di qualcosa di prezioso, di grande. Anzi: tutta la storia di
Israele, tutta la storia dell’umanità, è segnata dal continuo abbandono della
cura di questa libertà e della cura di questa terra, abbagliati da nuove
presunte gioie che in realtà si rivelano poi essere idolatrie, schiavitù degli
idoli del potere, della ricchezza, del piacere.
Quello che la prima
lettura ci racconta a livello di popolo, la parabola del vangelo ce lo dice a
livello personale: il figlio maggiore è il chiaro esempio di come possiamo
fallire questa chiamata alla gioia. “Ecco, io ti servo da tanti anni e non
ho mai disobbedito a un tuo comando”: in questa recriminazione è presto
detta l’attitudine di fondo con cui ha vissuto fino ad ora questo servizio e
questa obbedienza. Servizio e obbedienza che sembrano più la conseguenza di una
schiavitù e di un puro dovere, assolto per qualche obbligo non meglio definito,
nei confronti di un padrone poco attento a retribuire il lavoro svolto, almeno
con un capretto. E il padre ha un bel daffare per far comprendere al figlio che
non è stato trattato in modo servile, ma che quel servizio e quell’obbedienza
dovevano essere vissuti come atti di cura della famiglia e della terra per
preservare la sua gioia filiale, perché, gli spiega il padre, “tu sei sempre
con me e tutto quello che è mio è tuo”.
Potremmo allora
chiederci da dove nasce a volte la nostra mancanza di gioia, la nostra
infelicità. Se è davvero causata da schiavitù e doveri che ci sono imposti in
modo arbitrario dalla vita e dalle persone con cui abbiamo a che fare, oppure
se non c’è in fondo la perdita della consapevolezza di una dignità filiale che
ci abilita, ci sprona ad aver cura, -e non ad aver paura-, della libertà, della
terra, delle vite che ci sono state affidate. Se imparassimo a vivere
l’obbedienza alla vita e agli uomini in modo libero, cioè senza la preoccupazione
di compiacere, senza la sensazione dell’oppressione, senza la paura del rifiuto
o senza l’ossessione del giudizio; ma un’obbedienza che si fonda sulla certezza
di essere amati da Dio e quindi in qualche modo sollecitati dalla vita e dagli
uomini a crescere in libertà e in carità, allora potremo riscoprire la gioia di
un’appartenenza e di un amore che non sono mai venuti meno.
È in fondo
l’esperienza del figlio minore, che pressato dalla miseria e dalla fame,
ritorna in se stesso e scopre di aver rigettato la gioia filiale in cambio di
presunte gioie che alla fine lo hanno lasciato in uno stato di grande
desolazione. Ritornare in se stessi è il primo passo della conversione, quello
più faticoso e doloroso perché significa riconoscere di essere precipitati al
di sotto di se stessi. Ma è anche il passo necessario per acconsentire a quello
della riconciliazione, di cui ci parla san Paolo nella seconda lettura e che è
così ben descritto dal vangelo: “Quando ancora era lontano, suo padre lo
vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”.
“È Dio che ha
riconciliato a sé il mondo in Cristo”.
Ci avviciniamo alla
festa di Pasqua, in cui facciamo memoria e rinnoviamo la riconciliazione che
Dio ha voluto compiere con noi. Questa
seconda metà della quaresima che si apre davanti a noi, ci offre il tempo
propizio per arrivare alla grande festa di Pasqua con il cuore dilatato per
accogliere e per gioire del dono di amore e di vita che Dio ci fa attraverso
Gesù crocifisso, morto e risorto.
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